Il Fuoco: principio della vita
"Primavera d'intorno / brilla nell'aria, e per li campi esulta / sì ch'a mirarla intenerisce il core" (G.Leopardi").
L'Associazione Setia plena bonis non finisce di stupire. Un'altra iniziativa brillante per ravvivare la tradizione e il folclore locale. Con qualche giorno di anticipo rispetto al calendario astronomico, sabato 16 marzo ore 20, nello spazio antistante l'Anfiteatro, si celebrerà l'arrivo della Primavera. Tradizione, folclore e fantasia sono gli ingredienti di questo evento. Intorno a un grande falò, il fuoco di S.Giuseppe, si esibiranno poeti, cantanti, ballerine e personaggi mitologici. Una gara tra il sacro e il profano, tra la fede e la mitologia. Fin dalle origini della comparsa dell'uomo sulla terra, il fuoco ha assunto un valore simbolico a causa della sua funzione fondamentale e vitale per la sopravvivenza e lo sviluppo della specie umana. Con esso l'uomo primitivo illuminava il buio della notte, cuoceva le carni crude degli animali e si difendeva. Il grande filosofo greco Eraclito riteneva che il fuoco è l"archè", cioè il principio della vita, l'elemento essenziale che determina la sopravvivenza e le trasformazioni della natura. Il fuoco, infatti, si trasforma in vapore e quindi in pioggia dando così energia al ciclo vitale della vita. "Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma". Il fuoco, dunque, fin dall'antichità si identifica con l'energia e la vitalità ed è per questo che simboleggia la Primavera. Il Cristianesimo ha rielaborato questo principio trasformandolo nel simbolo di Dio e dello Spirito Santo. In ogni chiesa è sempre acceso un cero a significare la presenza di Dio, nel tabernacolo. Di qui tante leggende e tante tradizioni, come quella che racconta di S. Giuseppe alla ricerca di ramoscelli di ulivo. L'Associazione è lieta di invitare tutti i cittadini a festeggiare l'arrivo della Primavera con il seguente programma: per riscaldare il Bambinello Gesù.
La doma dei buoi da lavoro: una crudeltà necessaria
I buoi da lavoro, in uso a Sezze e in tutto l’Agro romano, erano i maschi della razza maremmana, dalle lunghe corna e di colore grigio chiaro, a volte con sfumature grigio scuro oppure marrone chiaro, soprattutto lungo il collo e la testa. Potevano essere aggiogati all’aratro, alla perticara[1] oppure alla barozza[2]. Vivevano allo stato brado tutto l’anno, all’interno delle tenute e non abbisognavano di ricoveri, ma di robuste staccionate per delimitare i pascoli secondo rotazioni prestabilite, di paglia con una o più pagliare[3] sparse secondo il numero dei capi, ma soprattutto di grossi fienili di fieno per l’inverno, quando scarseggiava l’erba fresca. I buoi prendevano da soli la razione di fieno o paglia di cui abbisognavano. La mungitura avveniva anch’essa all’aperto ed il vaccaro addetto si spostava da una mucca all’altra con uno sgabello ad un solo piede, normalmente un tronchetto di legno leggero, che per praticità veniva allacciato al fondo schiena, a mezzo di una funicella, in modo da avere le mani libere per trasportare i secchi del latte negli spostamenti.Un bue aveva il bisogno giornaliero di ruminare una razione di 15 - 20 Kg di fieno e quando possibile, di una dozzina di chili di pascione[4] di fave. Durante l’inverno, dimagrivano per fame e freddo, ma nella primavera, da Marzo ad Aprile, quando l’erba dei pascoli ricresceva in fretta, recuperavano ben 200 chili di peso, ruminando una razione giornaliera di circa 80 -120 Kg di erba fresca. (fermandosi solo la notte, quando avevano pieno i sacchi dello stomaco dell’omaso e dell’abomaso). Da primavera sino a tutta l’estate, dalle ore 22 e sino al’uscita del sole, andavano a pascolo libero, riposandosi sotto un albero nelle ore più calde della giornata. Il carico di bestiame per ogni rubbio di terreno [5] era in media di 2 buoi più un giovenco, oppure di due vacche più una giovenca. Il primo passo da compiere per la doma era quello di castrare l’animale, alla fine del secondo anno di vita, si da renderlo più docile. Per poter castrare un bue occorreva innanzitutto immobilizzarlo, cosa non facile per la mole, che non era mai inferiore ai dodici quintali. Si ovviava allora con un sistema abbastanza semplice, il bue veniva spinto dai butteri ad infilarsi in una strettoia, normalmente costituita da due robuste file di staccionata, e, non appena entrato, gli si precludeva l’uscita con l’immediata chiusura di entrambi i cancelli, intrappolandolo in una specie di gabbia, che non concedeva margini di movimento. A questo punto il capoccia[6] gli passava una doppia corda attorno al petto e alla groppa, e la stringeva attorcigliandola con l’aiuto di un bastone, fino a farla diventare una vera e propria morsa, che toglieva respiro e forza all’animale senza soffocarlo, ma annullando del tutto la sua capacità di reazione. Poteva avvenire così la castrazione, senza bisturi né coltelli ma solo con la forza delle mani, afferrando saldamente i testicoli del bue e compiendovi, con maestria, un paio di roteazioni, sino a procurare la rottura dei cordoni genitali. La castrazione era così avvenuta e la povera bestia poteva tornare libera. Trascorso qualche mese e superato il trauma, veniva avviato al giogo della perticara, tra due buoi già “esperti“, che fungevano da “istruttori”, chiamati ruffiani. Al centro dei due buoi, il “novizio” non poteva nè rimanere indietro perché pungolato dalla verga del bifolco[7], nè fuggire in avanti perché fermato dal giogo dei due ruffiani ed era quindi costretto a tirare la perticara. Di solito questo “praticantato” durava un paio di mesi, dopodichè prima di essere aggiogato con un compagno, che aveva subìto analogo trattamento, veniva accoppiato per un certo periodo di tempo, con un altro bue anziano o più addomesticato. Era un allenamento vero e proprio ai lavori agricoli e il periodo di doma poteva considerarsi concluso quando il collo dell’animale era ben incallito, quindi indurito, nella parte a contatto con il giogo.Una coppia di buoi ben domati per i lavori agricoli costituivano la “uetta de bovi” ed il loro valore economico era enorme, paragonabile oggi al costo di due grossi Tir. Per questo i bovari[8] erano una sorta di casta, guadagnavano molto ed erano autentici professionisti, molto stimati in paese. Con i buoi occorreva fare molta attenzione, quando erano liberi dal giogo nel rimissino, perché nonostante la castrazione, alcuni potevano essere pericolosi, sia per gli animali che per gli uomini e rispondevano solo agli ordini del capoccia che li custodiva o di quanti mostravano di saperli dominare. Si ricorda di un bue, appartenuto a mio nonno, di nome Furia, che non permetteva ad altri animali di abbeverarsi con lui alla sorgente, perché era “ geloso” dell’acqua e temeva che gliela rubassero. Una volta, per tale motivo, dette di corna ad un asino, colpendolo alla pancia con una tale virulenza da scagliarlo a parecchi metri di distanza, provocando la morte della povera bestia, per la profonda ferita che gli era stata inferta. Alcuni buoi erano ombrosi anche con persone che vedevano di frequente ma che, senza alcun motivo, non riuscivano ad accettare. Probabilmente intuivano che si trattava di persone timorose e l’istinto li spingeva a dominare, oppure più semplicemente avevano le loro antipatie, che non manifestavano mai nei confronti di chi gli portava quotidianamente l’erba fresca.
[1] A differenza dell’aratro di Virgilio, la perticara era realizzata in ferro
[2] Carro trainato da buoi, realizzato con legno robusto e con ruote di ferro.
[3] Pagliare o pagliai: cumuli di paglia
[4] Pascione: Foraggio fresco per le mucche, composto di biada e fave. Doveva essere servito sempre bello asciutto, perché diversamente, per una reazione chimica da parte delle fave nello stomaco, poteva essere letale per le mucche che se ne cibavano, cioè, come si diceva in gergo s’abbentauano.
[5] Il rubbio romano era un appezzamento di terreno corrispondente a circa 18mila metri quadrati (quasi due ettari). Il termine deriva dall'arabo rub'a, forse incrociato con il latino rubeus (rosso), in quanto era in uso delimitarne la misurazione con una striscia di polvere o di vernice rossa.
[6] Capoccia: Era colui che oltre ad avere una pratica consumata in tutti i lavori di aratro, che a seconda di come venivano eseguiti decidevano i buoni o cattivi risultati, doveva anche possedere delle nozioni basilari di veterinaria.
[7] I bifolchi erano addetti all’aratura sotto la stretta sorveglianza del capoccia. Si è raccontato che fossero persone pigre e ciarlatane. Tra essi era facile trovare i rifiuti della società: ladri, assassini, ecc. Qualcuno ha affermato di aver visto anche dei seminaristi del Collegio gesuitico di Sezze che avevano preferito guidare i buoi piuttosto che essere guidati dall’ascetica disciplina dei loro rettori.
[8][8][8] Bovari: proprietari di buoi, a differenza del capoccia, lavoratore dipendente.