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Si è spenta all’età di 96 anni Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli.
 
Caparbia e determinata, per 55 anni ha difeso la memoria di suo marito, il ferroviere anarchico morto nella Questura di Milano, nel dicembre del 1969, cadendo da una finestra del quarto piano durante un lunghissimo interrogatorio nell’ambito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana.
 
Licia Rognini era arrivata a Milano con la famiglia da Senigallia nel 1930, quando aveva quasi due anni. Aveva conosciuto Pino Pinelli ad un corso di esperanto, la lingua universale, organizzato dal Circolo Filologico Milanese, si erano sposati in chiesa ed avevano avuto due figlie, Claudia e Silvia. Per contribuire al bilancio familiare, mai abbondante con il solo stipendio del marito, batteva a macchina le tesi di laurea degli studenti universitari. Ad unirli oltre l’affetto era l’ideale di un mondo pacifico e affratellato da un unico linguaggio. Pur non essendo anarchica, come Pino credeva che la sua patria fosse il mondo e la sua legge la libertà.
 
Licia e Pino erano persone semplici, una coppia come tante, animate da grandi ideali, ma la loro storia in quel dicembre del 1969 prese improvvisamente una traiettoria inaspettata e drammatica.
 
Pino Pinelli fu convocato nella Questura di Milano e venne trattenuto per giorni per essere interrogato. In Questura era arrivato dal circolo anarchico Scaldasole a bordo del suo motorino, seguendo l’auto del commissario Luigi Calabresi, il quale stava indagando sul primo atto di terrorismo avvenuto in Italia, considerato l’avvio della cosiddetta strategia della tensione, la strage alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. Grazie ai depistaggi dei servizi segreti deviati, le indagini erano state orientate sulla pista anarchica.
 
L’interrogatorio di Pino Pinelli si protrasse molto oltre le 48 ore previste dalla legge e nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 il ferroviere anarchico “cadde” da una finestra in circostanze mai chiarite.
 
L’annuncio della tragedia fu dato a Licia Pinelli dai giornalisti che bussarono alla porta dell’appartamento dove abitava con Pino Pinelli e le loro due figlie e le venne confermata nel corso di una drammatica telefonata: fu lei a chiamare la Questura di Milano e a chiedere notizie di suo marito.
 
Quella notte segnò per sempre la vita di Licia Pinelli e della sua famiglia. Si ritrovò da sola con due figlie a lottare per sopravvivere ad una tragedia immane, per fare fronte alle inevitabili difficoltà economiche conseguenti alla morte di suo marito e nel chiedere verità e giustizia. Dignitosa e mai doma come solo le donne sanno essere, ha fatto di ogni sua lacrima una parola e le parole possono trasformarsi in pietre. Ha trascorso 55 anni sulle barricate, combattendo con le unghie e con i denti per tenere viva la memoria di suo marito, per lottare contro i continui depistaggi delle indagini su quanto accaduto quella notte nella stanza al quarto piano della Questura di Milano e smentire la montagna di menzogne raccontate sul suo conto, con le quali si è cercato di annichilirlo e di trasformarlo da vittima in carnefice.
 
Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto”. Il ferroviere anarchico del circolo del Ponte della Ghisolfa sarebbe crollato alla notizia, ovviamente falsa, che “il tuo amico Valpreda ha parlato”, gridando “è la fine dell’anarchia” e si sarebbe buttato dalla finestra. Si era trattato di un suicidio secondo il Questore, che in una conferenza stampa buttò il suo veleno sulla storia di un uomo probo, il quale credeva nell’anarchia, che non vuol dire bombe ma giustizia nella libertà, sostenendo che il suo alibi, relativo alle ore in cui in piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura, qualcuno aveva messo la bomba e provocato 17 morti, era caduto.
 
Si trattava di una madornale bugia, così come lo era il coinvolgimento degli anarchici nei fatti del 12 dicembre. Grazie alla tenacia di Licia Pinelli e delle sue figlie e al lavoro di un gruppo di giornalisti, tra cui Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa e Corrado Stajano, i quali non si limitavano a ricevere veline ma svolgevano un ruolo di  controinformazione rispetto alle versioni ufficiali dei vertici istituzionali, la pagina di questa tragedia è rimasta aperta per così tanti anni e non si è smesso ancora di cercare la verità. L’unico punto fermo è rappresentato dalla sentenza del 1975, nella quale il giudice D’Ambrosio sostenne la tesi del cosiddetto “malore attivo”, cioè “il collasso che si manifesta con l’alterazione del centro di equilibrio cui non segue perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati”. In pratica o per lo stress dell’interrogatorio, o per la cappa di fumo di sigarette, o per il freddo, o per lo stomaco vuoto, Pinelli a un certo punto avrebbe cominciato a barcollare nella stanza fino a cadere giù dalla finestra. Una spiegazione surreale, ma ad oggi l’unica verità giudiziaria sulla vicenda. Quantomeno è stata definitivamente esclusa la tesi del suicidio.
 
Quella sera nell’ufficio del commissario Calabresi, il quale in quel momento era uscito nel corridoio, ma in cui stranamente era presente, insieme ai poliziotti, anche un ufficiale dei carabinieri, è accaduto qualcosa di molto grave, a cui seguirà, tre anni dopo, l’assassinio dello stesso Calabresi, un atto che una persona come Pinelli non avrebbe mai voluto per vendicare la sua morte.
 
Nel 2009, in occasione dell’incontro voluto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, due donne che avevano ugualmente sofferto, Licia Rognini Pinellli e Gemma Capra Calabresi, vedove di due mariti assassinati, si sono ritrovate accumunate dall’identico dolore e dal desiderio inappagato di conoscere la verità su quanto accaduto ai loro cari, lo stesso desiderio che dovrebbe animare ogni autentico democratico affinché vengano spazzate via le ombre oscure che aleggiano sulla nostra democrazia e simili assurde tragedie non accadano mai più.
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Istruttoria del Tar sul dissesto dichiarato dal Comune di Bassiano. Il tribunale amministrativo vuole capire come stanno veramente i conti dell’Ente alla luce del ricorso presentato lo scorso 7 febbraio da ex amministratori, cittadini, associazioni, per chiedere l’annullamento della deliberazione n. 31 del 21 novembre 2023.  “Più volte – segnalavano i consiglieri comunali d’opposizione del gruppo “Bassiano Futura” – abbiamo segnalato all’Amministrazione Onori errori, scorrettezze, illegittimità negli atti. Ma niente, nulla è valso a scongiurare questo esito nefasto per la nostra comunità, fino a poco tempo fa fiore all’occhiello della Provincia e della Regione”. Sotto la lente di ingrandimento del ricorso l’erroneità nello stralcio di una cospicua quantità di residui attivi. Secondo la tesi del ricorso l’insostenibilità della situazione economico-finanziaria del Comune di Bassiano sono state fondate su un incremento del dissesto risultato maggiorato in modo erroneo.

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