Sabato, 18 Gennaio 2025 19:18
La scorciatoia della repressione
Sono passate da poco le quattro del mattino del 24 novembre 2024. La telecamera di sorveglianza del Comune di Milano, posizionata all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, nel quartiere Corvetto, riprende gli ultimi istanti di vita di Ramy Elgaml, un ragazzo di origine egiziana di 19 anni.
Nelle immagini registrate si vede un motorino con due persone a bordo, inseguito da una gazzella dei Carabinieri. Pochi istanti ed entrambi i mezzi escono fuori strada. Sembrerebbe esserci un contatto tra la macchina e il motorino, che finisce la sua corsa contro un palo. Per Ramy Elgaml, che viaggia come passeggero sullo scooter, l’impatto è fatale. Tre autovetture dei carabinieri avevano rincorso per otto chilometri lungo le strade di Milano il motorino, il cui conducente non si era fermato ad un posto di blocco. I militari si erano accorti che il ragazzo seduto dietro, durante l’inseguimento, aveva perso il casco.
Quanto accaduto quella notte, in particolare gli ultimi istanti di vita di Ramy, è impresso in quei fotogrammi. Tuttavia ascoltando la registrazione, inquietano molto le parole pronunciate dai carabinieri all’inseguimento dei due ragazzi: “Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade. No, merda, non è caduto”, “Vaffanculo, non è caduto” e infine “Bene”, quando giunge la notizia che i due sono caduti, anche se senza nulla specificare in merito alle conseguenze.
Sono frasi giustificabili per via dell’adrenalina e della concitazione di quei momenti? Può darsi. In ogni caso la dinamica di quanto accaduto lascia il forte dubbio che si sia trattato di un inseguimento assurdo, rischiosissimo e sproporzionato.
Sarà la magistratura a far piena luce, ad appurare se lo scooter è stato speronato dalla macchina dei carabinieri, come riferito dal conducente del motorino e da un testimone oculare, un ragazzo che si trovava sul marciapiede all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta al momento dell’impatto, il quale sostiene di aver ripreso la scena con il proprio cellulare, video che i carabinieri, una volta scesi dall’auto, gli hanno chiesto di cancellare, e ad accertare le eventuali responsabilità.
La morte di Ramy Elgaml umanamente è una tragedia enorme ma anche qualcosa di più, può segnare l’inizio di un’onda lunga che va al di là del fatto in sé. In queste settimane, nel nome di questo ragazzo, è esplosa una rabbia che ha preso la forma di proteste di piazza, di cortei e striscioni che invocano giustizia e purtroppo arrivano a strizzare l’occhio anche alla vendetta. Roma, Bologna, Milano e Brescia sono stati teatro di un dissenso allargatosi a macchia d’olio e divenuto scontro violento con uso di bombe carta, bottiglie e petardi artigianali. Agenti feriti, auto delle forze di polizia distrutte, atti vandalici, una stazione dei carabinieri e la sinagoga di Bologna prese d’assalto come se si trattasse di presidi nemici, rischiano di riportarci agli anni bui in cui Stato e manifestanti si consideravano nemici ed erano divisi da uno scudo.
La condanna dei disordini e delle violenze da parte della politica è stata unanime, ma alzare la voce, invocare le zone rosse, la vigilanza rinforzata, i rimpatri immediati, le misure forti sono solo scorciatoie mediatiche, numeri da sciorinare nelle conferenze stampa e armi propagandistiche, non soluzioni concrete ed efficaci per il nostro Paese, che si ritrova a leccarsi ferite causate da una politica incapace di proposte che vadano al di là della semplice repressione.
Niente può giustificare la violenza, ma è illusorio pensare di poter fronteggiare la rabbia delle piazze soltanto con la repressione. Dietro i petardi, i saccheggi, le violenze ci sono persone e storie, c’è un’intera generazione che si sente preclusa ogni speranza di futuro e realizzazione, ci sono le voci dei figli dei migranti troppo spesso considerati italiani di serie b. Questa violenza cieca ed ingiustificabile è il sintomo di un malessere che cova nelle periferie delle nostre città, nei quartieri ghetto, nelle realtà piccole e grandi, dove l’assenza di riferimenti valoriali e le relazioni familiari spesso sgretolate hanno effetti devastanti.
Rispondere a questo malessere semplicemente con il pugno duro allarga solo il fossato esistente tra cittadini e Stato, considerato sempre più come un nemico, e di dare spazio alle posizioni più dure e violente. Le zone rosse, i rimpatri, i fogli di via, le cariche della polizia creano l’illusione della soluzione, non vanno oltre l’immediato e nemmeno scalfiscono i problemi.
Esemplari per il rispetto e la fiducia espressa nei confronti delle istituzioni sono la ferma condanna di ogni violenza e l’invito a manifestare pacificamente per chiedere giustizia del padre di Ramy Elgaml, assai meno invece le scelte di una parte della politica, che non ha perso l’occasione per strumentalizzare l’accaduto e invocare il pugno duro, facendo ricorso a slogan utili solo per racimolare più voti possibili facendo leva sulle paure della gente e non per affrontare e risolvere i problemi.
Servirebbe invece una politica dallo sguardo lungo, desiderosa di lenire le ferite sociali anziché di acuirle ed enfatizzarle, e capace di mettere al centro della propria azione un tema fondativo della democrazia come la sicurezza, terreno su cui si gioca la sfida tra democrazie e autocrazie e fondamentale soprattutto per i ceti più esposti, per le classi popolari che vivono nelle periferie, subiscono violenze, negazione dei diritti, emarginazione e più degli altri vivono sulla propria pelle il senso di incertezza e di paura per il futuro. La democrazia deve sapere parlare a tutti, soprattutto ai cittadini che temono per il loro presente e sono angosciati per il loro futuro. L’integrazione tra nazionalità e religioni diverse, l’educazione al senso civico, i servizi alla persona e le pari opportunità offerte per migliorare le proprie condizioni personali e sociali sono indispensabili per garantire la civile convivenza tra diversi e la sicurezza di tutti e di ciascuno.
Saprà la politica dismettere i panni del populismo e raccogliere una simile sfida?
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Riflessioni