Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalita' illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie, per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

 

 

È la rabbia il sentimento predominante e non la pena e la tristezza.

Saman Abbas ha pagato con la vita il suo essere una donna libera e coraggiosa, l’aver rivendicato diritti, dignità e autodeterminazione, il suo ribellarsi al tribalismo oscurantista della famiglia e il suo rifiutarsi di sottostare a un matrimonio combinato con un cugino in Pakistan. Sicuramente è stato un prezzo enorme e inaccettabile, che non può lasciarci insensibili e indifferenti.

La morte di Saman Abbas è un femminicidio, una violazione terribile dei diritti umani, che affonda le sue radici nella cultura patriarcale del suo paese d’origine, il Pakistan, nella convinzione perversa per cui le relazioni personali, particolarmente quelle familiari e più intime, sono improntate alla logica del possesso e non del rispetto dell’alterità e della libertà individuale. La vita di una donna non vale nulla ed è sacrificabile, anche se si tratta della propria figlia, soprattutto se osa rifiutarsi di essere merce di scambio, utilità vantaggiosa non per se stessa ma per la propria famiglia, strumento nelle mani di un padre padrone che ne dispone senza limiti in nome di una tradizione islamica, di una reputazione da mantenere integra e tutelare e di cui ammantarsi all’interno della propria ristretta comunità. 

Parlare di questo crimine associandolo unicamente all’Islam sarebbe un gravissimo errore. Ogni generalizzazione è frutto di superficialità e finisce per etnicizzare il reato e alimentare il pregiudizio, soprattutto poi contro una minoranza come sono i musulmani nel nostro paese. Detto questo però non possiamo nascondere che fatti così orrendi sono anche possibili grazie alle ambiguità persistenti nel mondo islamico su letture e pratiche aberranti, alla protezione accordata troppo spesso a radicali intransigenti, estremisti e letteralisti attraverso innanzitutto omertà e coperture.

Da qualche anno l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane ha emesso una fatwa, ovvero una condanna religiosa contro i matrimoni forzati e la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Si tratta di una presa di distanza sicuramente rassicurante e positiva rispetto a pratiche aberranti appartenenti alle tradizioni di alcuni paesi, la negazione di una loro legittimazione sotto il profilo religioso, ma che a ben vedere rivela un limite sostanziale importante.  

La fatwa è un atto rivolto all’interno della comunità islamica e ha carattere strettamente interpretativo del diritto religioso. Le comunità islamiche non dovranno più ricorrere alle pratiche dei matrimoni imposti e delle mutilazioni genitali non perché gli iman riconoscono il primato della Costituzione della Repubblica e delle leggi civili dello stato democratico, ma perché il Corano a loro giudizio non deve avere quella interpretazione. In altri termini il femminicidio patriarcale non è condannato in sé, per l’aberrazione che rappresenta, e non vi è alcun richiamo al rispetto dei diritti umani, dell’autodeterminazione di ogni individuo e in particolare delle donne, anzi c’è la riaffermazione del primato della legge religiosa su quella civile, unica ad avere legittimità regolativa dei rapporti tra le persone.  

Il vero problema è che in questi anni c’è stata un’incapacità delle istituzioni del nostro paese a promuovere una seria politica di integrazione, soprattutto verso le popolazioni immigrate provenienti da paesi con tradizioni culturali e religiose assai distanti e diverse dalle nostre, come appunto quelle islamiche, sia perché si è confusa la libertà religiosa e di opinione personale con la tolleranza per il disprezzo dei diritti umani professato da alcune frange integraliste e tradizionaliste, sia perché si è preferito ignorare queste criticità per ragioni di convenienza politica spicciola e di consenso elettorale o puntare semplicisticamente sulla contrapposizione, sul contrasto propagandistico e parolaio del fenomeno migratorio, di fatto rinunciando a mettere in atto una efficace azione politica per governarlo. Il risultato rischia di essere devastante sotto il profilo sociale e le conseguenze saranno ancor più evidenti nei prossimi anni, dal momento che intere fasce di popolazione immigrata sono state spinte verso una dinamica di isolamento e ghettizzazione, che ha finito per accentuare la radicalizzazione delle tradizioni di cui sono portatrici, all’interno delle quali il patriarcato violento ha terreno fertile, e per innescare un processo di sempre maggiore rivendicazione identitaria in antitesi al contesto sociale in cui sono immerse e che considerano estraneo ed ostile. La mano degli assassini di Saman Abbas è stata armata all’interno di un simile quadro segregante ed escludente.

Il multiculturalismo non può ridursi alla tutela giuridica del multiconfessionalismo, per cui alle singole comunità religiose è riconosciuta non solo una libertà regolatoria dei comportamenti degli appartenenti, ma anche la possibilità di separarsi nettamente dagli altri individui appartenenti alla società e non praticanti quella determinata religione. Lo stato deve tutelare e garantire la piena libertà religiosa, componente essenziale dell’identità di ogni persona, ma deve altrettanto chiaramente riaffermare il primato delle regole comuni, che vanno rispettate da tutti ed a prescindere dall’appartenenza religiosa. È non più rinviabile l’attivazione di un percorso che porti rapidamente ed efficacemente al superamento della situazione descritta, altrimenti misogeni, sessisti e radicalismi colpiranno ancora chissà quante volte e i responsabili resteranno per lo più impuniti, grazie a coperture e complicità reciproche all’interno di queste comunità chiuse e autoreferenziali. Se continueremo ad avere uno sguardo etnicizzante, a non riconoscere come parte integrante del nostro paese intere generazioni di bambini, di ragazzi e di giovani, figli di immigrati nati in Italia o comunque arrivati da noi da piccoli, impregnati profondamente della nostra cultura e dei nostri valori, animati dai nostri stessi desideri di libertà e realizzazione, destinati però in tal modo a restare frustrati, determineremo una crescita a dismisura di pericolosissime sacche di emarginati, facili prede di estremisti e gruppi violenti, regaleremo uomini e donne all’illegalità e alla criminalità con ripercussioni gravi e imprevedibili per la tenuta sociale complessiva. L’obiettivo deve essere allora educarci ed educare al valore del pluralismo, raccogliere la sfida fondamentale della diversità e non aver paura della contaminazione reciproca.

Pubblicato in Riflessioni