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Domenica, 22 Novembre 2020 07:50

Neanche con un dito!

 

 

“Un uomo che ci picchia è uno stronzo. Sempre. E dobbiamo capirlo subito. Al primo schiaffo. Perché tanto arriverà anche il secondo, e poi un terzo e un quarto. L’amore rende felici e riempie il cuore, non rompe costole e non lascia lividi sulla faccia. Pensiamo mica di avere sette vite come i gatti? No. Ne abbiamo una sola. Non buttiamola via” (Luciana Littizzetto)

Vorrei tanto non scrivere della violenza sulle donne.

Mi piacerebbe che il 25 novembre fosse una ricorrenza anacronistica, obsoleta, memoria di una barbarie definitivamente sconfitta, retaggio di un’epoca tramontata, contrassegnata dal sigillo dell’incomprensibile e dell’assurdo, espressione di una malvagità che l’umanità si è lasciata per sempre alle spalle.

Mi piacerebbe non sentire pronunciare nei notiziari televisivi e non leggere sulle pagine dei giornali la parola femminicidio, non ascoltare racconti di carneficine domestiche. Purtroppo l’umanità continua a segnare il passo. La realtà ci costringe a fare quotidianamente i conti con brutalità assurde e inaccettabili compiute da autentici mostri ai danni delle donne e sempre più frequentemente, in un delirio distruttivo che non risparmia niente e nessuno, anche dei figli, agnelli sacrificali funzionali ad infliggere la sofferenza inaudita della perdita più atroce a colei che ha osato sottrarsi al proprio potere e rivendicare spazi di autonomia, a misurarci con storie di umiliazioni e soprusi che si consumano soprattutto nel chiuso delle mura domestiche e restano avvolte nel silenzio e nell’indifferenza. Le violenze conquistano l’onore della cronaca solo quando assumono vesti eclatanti e sfociano in gesti estremi e nell’omicidio, impossibili da nascondere o mascherare, ma ordinariamente presentano le sembianze della prevaricazione sottile e subdola, si nascondono nelle pieghe e nei dettagli apparentemente irrilevanti, nei piccoli gesti che raccontano una malevolenza radicata e un disprezzo profondo per la donna. Uomini orrendi, che osano chiamare amore quello che in realtà è l’esaltazione del proprio egoismo e la sua assoluta negazione.

È duro incrociare e sostenere lo sguardo di una donna violata ed abusata, che ha creduto nell’amore e ha messo in gioco se stessa, pensando di poter costruire un percorso di vita, di ritagliarsi spazi di serena realizzazione a fianco della persona amata e si è scoperta invece vittima di una possessività asfissiante, considerata alla stregua di un oggetto, privata di dignità e rispetto, precipitata in un incubo, in un inferno di sofferenze e degrado, soggiogata fisicamente e psicologicamente al punto da ritenersi sbagliata, esclusiva responsabile dei maltrattamenti subiti, colpevole della propria condizione, carnefice insomma di se stessa e non vittima. Frequentemente la sua colpa più grande è l’illusione di poter cambiare il proprio uomo, di poterne guarire l’ego malato, di poterlo aiutare ad uscire dal pantano popolato di incubi e ossessioni in cui è rintanato.

“Come hai fatto a non accorgertene?”.

“Come mai non te ne sei andata prima?”

“Perché non hai chiesto subito aiuto?”.

“Se hai accettato di restare in fondo così male non doveva essere….”.

“Sei fuggita da una prigione nella quale stavi per tua volontà e dunque che prigione era? Nessuno ti obbligava”.

Chissà quante volte abbiamo sentito ripetere queste parole, trasudanti scetticismo e prive di umana empatia e comprensione. Parole e domande come lame affilate capaci di ferire e umiliare ancora una volta le donne che, con grande sofferenza, si affrancano dalle catene e riescono a raccontare la loro esperienza sconvolgente. È difficile spiegare a chi non lo ha vissuto sulla propria pelle come sia stato possibile arrivare fin lì, spingersi al limite ultimo e perfino superarlo, capire che la sottomissione è una trappola, un gorgo in cui si viene risucchiati poco alla volta e spesso dolcemente attraverso una gentilezza formale al limite dell’irritante, una cortesia di linguaggio che è solo inganno, una attenzione affettata e insidiosa e una volta catturate è complicato divincolarsi, uscirne, liberarsene, superare quella barriera che impedisce persino di mandare segnali all’esterno, di comunicare quello che si sta subendo agli altri, i quali peraltro molto spesso nemmeno vogliono sapere.     

Lungamente la violenza sulle donne è stata ritenuta socialmente accettabile, anzi normale, solo perché in moltissimi casi veniva subita supinamente e pertanto era invisibile o quantomeno è stato un tema ignorato, stimato irrilevante, non meritorio di attenzione, considerato da alcuni un tabù. Un mondo sommerso, nascosto e negato, nel quale reticenza, menzogna e neutralità l’hanno fatta da padrone e il silenzio ha aiutato oppressori e carnefici. Accettare e sopportare tacendo è stato l’imperativo per le donne: altre soluzioni o vie di uscita non erano possibili o immaginabili.

Nonostante gli sforzi e le lotte portate avanti per abbattere la concezione patriarcale delle relazioni familiari, il furore padronale e il senso del possesso maschile radicato e condiviso, il retaggio consolidato di un’idea della donna come oggetto di cui disporre a piacimento e della sua sottomissione all’uomo ancora resiste, come anche il muro dell’omertà che spesso circonda soprusi e violenze. Disinnescare un simile pensiero è indispensabile, ma purtroppo il solo deterrente della punizione non riesce a fermare la mano di chi usa violenza, strangola, soffoca, brucia e uccide. Molte donne vengono massacrate dopo aver denunciato e tante altre non sanno, possono o riescono a farlo. Pertanto contestualmente alla repressione è necessario investire in cultura e formazione, farmaci che non producono effetti immediati ma a medio e lungo termine: educare al rispetto della donna, proporre un modello relazionale improntato all’accoglienza in cui l’altra non è un possesso, un oggetto da controllare e dominare perché nessuno è mio o tuo….. Ci vorrà del tempo, ma ogni minuto di ritardo costerà molto in termini di traumi indelebili e vite.

Pubblicato in Riflessioni