Ariaferma, il nuovo film di Leonardo Di Costanzo, non è semplicemente un’opera cinematografica necessaria in quanto ci introduce nel mondo delle carceri e nelle sue criticità, ma qualcosa di più importante perché è una riflessione universale e profonda sul libero arbitrio, sulla compassione e sull’umanità, proprio a partire da un luogo che più di ogni altro è capace di svuotare completamente il senso stesso di queste parole.
Mortana, un vecchio carcere ottocentesco, situato in una zona impervia e imprecisata dell’Italia, è in dismissione. Il trasferimento dei detenuti è quasi completato, quando per problemi burocratici arriva un contrordine. La struttura che avrebbe dovuto accogliere gli ultimi dodici reclusi non è al momento disponibile, perciò devono restare ancora qualche giorno in attesa di nuove destinazioni e con loro alcuni agenti penitenziari. “L’ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento, anche domani!” ripete ossessivamente l’Ispettore Gaetano Gargiulo, a cui l’ex direttrice del penitenziario affida il comando del gruppo di agenti rimasti e il compito di gestire la struttura ormai in abbandono. È questione solo di pochi giorni.
L’aria si ferma nel carcere di Mortana, esattamente come il tempo. Inizia un’attesa che ogni giorno rimane delusa. Il trasferimento è imminente, ma non si concretizza e i protagonisti non possono fare nulla, se non aspettare. Il rimando a “Oggi non verrà, ma verrà domani” di Aspettando Godot di Samuel Beckett è evidente.
I detenuti vengono trasferiti nella rotonda, al centro della struttura, dove gli agenti penitenziari rimasti in servizio possono facilmente controllarli a vista, anche di notte quando aprono lo spioncino e gettano il fascio di luce delle loro torce nel buio delle celle. Si tratta, a ben vedere, di una conformazione del tutto trascesa di questo luogo centrale, l’unico peraltro che mantiene una condizione di vivibilità, cui fanno da contrasto le lunghe inquadrature del resto del penitenziario ormai in disfacimento. Tuttavia la sistemazione provvisoria ha ricadute dirette e negative nelle vite non solo dei reclusi ma anche degli agenti, che cessano di essere invisibili ai controllati, perdono il potere dello sguardo e diventano in qualche modo sorvegliati e puniti anch’essi. La condivisione della reclusione di detenuti e agenti è emblematicamente messa in evidenza dalle parole rivolte da Carmine La Gioia, interpretato da Silvio Orlando, a Gaetano Gargiulo, interpretato da Toni Servillo: “E’ dura stare in prigione, eh!”. Lagioia è un boss malavitoso, un personaggio dotato di densità carismatica, capace di esercitare il potere sugli altri reclusi solo con la sua presenza, di essere una minaccia senza fare o dire nulla. Sta scontando una lunga pena detentiva e gli manca poco per tornare in libertà. Gargiulo è invece un uomo integerrimo, un agente professionalmente scrupoloso e di grande umanità, e per questo capace con un semplice gesto o una parola di rompere un sistema granitico di regole codificate e apparentemente immutabili.
Al ristretto gruppo di reclusi si unisce un ragazzo, Fantaccini, condotto a Mortana dopo essere stato arrestato per un tentativo di scippo che rischia di trasformarsi in tragedia, visto che il vecchio cui ha cercato di rubare il portafoglio è ricoverato in coma in ospedale e l’accusa nei suoi confronti potrebbe essere alla fine di omicidio. Un arrivo che aggiunge ulteriore incertezza sui tempi e sulla effettività del più volte ribadito imminente trasferimento.
I tredici detenuti, confinati in quello spazio ristretto, sono privati dell’ordinarietà del vivere in prigione: non hanno più attività da svolgere, visite da ricevere, nemmeno le cucine sono più in funzione e i pasti per agenti e reclusi sono portati dall’esterno. Questa situazione anomala suscita proteste spontanee tra i carcerati e al contempo fa sorgere molti dubbi etico-giuridici sulla legittimità di una restrizione ulteriore delle già limitate libertà e dei diritti personali. È una situazione particolare che richiede misure eccezionali e temporanee, viene continuamente ripetuto…..
La tensione cresce, affiorano contrasti etnici, culturali e morali, che rischiano di mettere seriamente in crisi il delicato equilibrio di quella microsocietà. Si intuisce che uno dei detenuti sta scontando una pena per pedofilia e gli altri rifiutano qualsiasi contatto con lui. Tocca a Gargiulo mantenere l’ordine, il quale non ricorre mai all’imposizione e alla forza, ma fa leva sulla sua autorevolezza, testardamente rifiutando qualsivoglia aiuto esterno, anche quando parrebbe la strada più facile. Quando i detenuti decidono di rifiutare i pasti perché immangiabili e la situazione sembra precipitare, Gargiulo si assume la responsabilità di imboccare una strada diversa, riapre la cucina e concede a Lagioia la possibilità di preparare i pasti per detenuti e agenti, piantonando in prima persona tutta l’operazione. In un momento di sospensione, se non proprio di collasso, delle norme ordinarie del carcere capisce che il contatto umano è l’unica strada per scongiurare il disastro. Nella cucina inizia così il confronto tra due personaggi archetipici, che pur incarnando polarità inconciliabili e rivendicando orgogliosamente identità e ruoli sociali, si trovano costretti a incontrarsi per un fine più alto: la sopravvivenza della comunità di cui entrambi fanno parte. In quel silenzio costellato di puri sguardi e rotto da parole scarne Gargiulo e Lagioia scoprono inaspettatamente una memoria condivisa, che smuove l’ariaferma di Mortana e apre le porte della prigione verso il nostro mondo che preme da fuori.
Lo spazio simbolico della cucina diventa allora un portale che conduce all’ultima cena, in cui agenti e detenuti sono seduti allo stesso tavolo, in una condivisione impensabile, un qualcosa “di mai visto”, come dice Lagioia, effetto di un’ulteriore situazione di eccezione: la mancanza di energia elettrica. Nel buio che avvolge lo spazio in cui si affacciano le celle, Gargiulo e Lagioia non solo consumano insieme il pasto, ma soprattutto sono uniti dalla preoccupazione di salvare la vita del giovane Fantaccini, spaesato più di tutti e finito in cella per una vita disgraziata e un crimine commesso per avventatezza, di cui sente su di sé il la colpa con dolore.
Ariaferma ci fa comprendere quanto il carcere sia straniante, un luogo di sofferenza, di negazione violenta, non necessariamente fisica, degli aspetti più intrinseci della nostra umanità, ma anche quanto ha in comune con il nostro vivere quotidiano, con le nostre tensioni interpersonali, le nostre ambivalenze, i nostri conflitti perdenti e i nostri tempi sospesi e ammonisce proprio noi che ci crediamo liberi da ogni catena e lontani da ogni finestra sbarrata.
Un film bello e importante, assolutamente da vedere, non ultimo per la straordinaria prova interpretativa di due grandissimi attori, Silvio Orlando e Toni Servillo.