Il PD tradito e smarrito
“Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell'uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d'Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l'altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d'Orlando”.
(Ludovico Ariosto – Orlando Furioso – Canto XXXIV ottava 83).
Chiedo venia al sommo poeta Ludovico Ariosto per l’impudenza di prender spunto dai versi del suo meraviglioso poema cavalleresco e amoroso, ricco di intrecci, storie e personaggi, per introdurre un tema assai prosaico, una riflessione su presente e futuro del Partito Democratico. La poesia è fonte inesauribile di bellezza, rinfranca l’anima e ci offre anche l’occasione di riflettere sul nostro quotidiano.
All’ombra del governo di Mario Draghi, approfittando di una conflittualità politica sospesa o comunque sopita, il P.D. avrebbe potuto far tesoro di questo prezioso tempo per scrollarsi di dosso l’appannamento ideale e culturale, l’appagamento da incarichi di governo e farsi novello Cavaliere Astolfo, intraprendendo il suo viaggio verso la Luna, dove andare a ricercare la propria identità smarrita e il dismesso senso di se stesso. Purtroppo gli avvenimenti di questi giorni raccontano che nel partito invece hanno prevalso il narcisismo autoreferenziale, il cannibalismo interno, la sindrome del Conte Ugolino che lo porta a divorare i propri leader uno ad uno.
Le dimissioni del segretario Nicola Zingaretti sono conseguenza sicuramente di quel demone perenne e invisibile che periodicamente divora la sinistra e i suoi leader, ma soprattutto in questo frangente del fatto che il PD è divenuto un coacervo di correnti ingestibili, prive di politica, senza ideali e legami sociali, impegnate a occupare il potere e a dilaniarsi, lobby e camarille che mirano a veder garantito ai propri affiliati un seggio alle prossime elezioni o uno sgabello da sottosegretario e che se ne infischiano bellamente di rispettare le regole minime di convivenza alla base di una comunità-partito. Ai notabili che tirano le fila non interessa di rischiare così di provocare il cupio dissolvi di una prospettiva politica fondamentale per la qualità della nostra democrazia, che per essere sana e funzionante deve offrire ai cittadini risposte alternative e specificamente uno spazio di rappresentanza progressista e riformista. Le polemiche incomprensibili tra cacicchi, l’invocato cambio di passo del partito o la celebrazione del congresso, pandemia permettendo, come se le primarie costituissero una palingenesi rigenerante e i gazebo una ripartenza salvifica a prescindere da valori, idee e contenuti, la battaglia per le poltrone senza esclusione di colpi sono stati comportamenti irresponsabili, prova evidente dell’inadeguatezza di politici che non hanno a cuore le istituzioni, la democrazia e il PD. Non si tratta di difendere Nicola Zingaretti o avversarlo aprioristicamente, ma di prendere atto che la politica seria è altro. Cambiare leader ad ogni piè sospinto, puntare a conquistare la plancia di comando a costo di ridurre tutto in macerie e senza alcuna progettualità raccontano una irresponsabilità e una miopia inaudite, sono una illusione di cambiamento che per essere autentico deve invece cancellare metodi indecenti e prassi incancrenite, una selezione della classe dirigente improntata alla promozione dei sodali che garantiscono fedeltà assoluta al capo di turno, anziché di quanti, a partire dai territori, hanno intelligenza, credibilità e competenze per governare la complessità del nostro tempo. La responsabilità della crisi in cui il PD si dibatte è di tutti i suoi dirigenti, nessuno escluso, per aver smarrito appunto come Orlando il “senno”, cioè gli ideali, la matrice e lo spirito originario di quanti il partito lo hanno pensato e fondato affinché fosse il luogo di incontro e sintesi di culture diverse, il fecondo crogiuolo di un moderno riformismo.
Ha ragione Mario Tronti quando afferma: “C’è un indifferibile problema di identità di quella formazione politica. Spero che, passata l’emergenza in cui siamo immersi, ci si avvii ad un congresso vero, di stampo tradizionale, a ripensamento ed elaborazione di una visione strategica complessiva riguardo alla propria presenza in Italia e in Europa. Il Pd ha bisogno, a mio parere, di trasformarsi in una forza di sinistra autenticamente popolare, perno centrale di un più vasto campo di alleanze in grado di battere sul campo una destra che riesce immeritatamente a rappresentare istanze, paure, difficoltà esistenziali, bisogni di protezione e di sicurezza, che non sono come tali di destra. Bisogna lavorare, con impegno quotidiano sul territorio, per spostare consenso da una parte all’altra. Per questo ci vuole un ritorno di partito, di forza organizzata, a tutela dei più deboli, dei disagiati, dei dimenticati”.
Enrico Letta non ha fatto in tempo ad accettare la proposta di fare il segretario del partito che già è ripresa la battaglia in maschera delle correnti per strappare garanzie su posti e fette di potere, minacciando altrimenti di riprendere il tiro al bersaglio anche con lui. L’assurdo è che i vestali di questa pseudo politica invocano a propria giustificazione il pluralismo e la democrazia come elementi essenziali all’interno del partito, quando invece quanto da loro praticato ne è solo una caricatura. D’altra parte non è democratica e pluralista la regola d’oro che guida le correnti: la cooptazione. I nuovi dirigenti vengono scelti dai vecchi con un reclutamento su base correntizia e l’effetto è il servilismo verso i capicorrente, la continuità dei gruppi di comando, l’obbedienza anziché la competenza nella distribuzione di ruoli politici e di governo. Per rompere questo circolo vizioso, occorre ripartire dalla Costituzione, dalla moralità e dall’etica politica, dai contenuti e da una nuova classe dirigente seria. Il PD deve riconnettersi con il suo popolo, con i cittadini, definirsi e reinventarsi in termini di cultura e progettualità politica, farsi rete di una comunità con sensibilità diverse. C’è un patrimonio di intelligenze, spesso giovani, del mondo della cultura, del lavoro, del terzo settore e dell’impresa da coinvolgere, con cui mettere a punto programmi orientati alla crescita, allo sviluppo, a un serio ambientalismo, al solidarismo che non lasci spazio ai populisti nella difesa e nella rappresentanza di quanti sono rimasti indietro. Servono studio, fatica, proposte e aprirsi a quanti vorrebbero dare il proprio contributo, ma sono frenati dall’idea di entrare in un partito dove la prima cosa richiesta è scegliersi la corrente di appartenenza e non di condividere sogni e speranze.
La democrazia sfregiata
La democrazia è un complesso e delicatissimo equilibrio tra elementi potenzialmente contrastanti. Il potere appartiene al popolo, il quale lo esercita mediante l’elezione dei propri rappresentanti, cui affida il compito di governare per un periodo determinato preventivamente e nel rispetto dei principi stabiliti nella Costituzione. Il popolo è un’entità differente sia quantitativamente rispetto ad altre forme di unione tra persone basate su legami parentali e affettivi o aventi finalità specifiche, sia qualitativamente perché nessuna rilevanza hanno l’origine etnica, la lingua, il sesso, la religione e le convinzioni personali. Nei sistemi democratici moderni, almeno in teoria, i cittadini godono di uguali diritti e dignità e al contempo è garantito loro il pieno esercizio della libertà individuale, che segna un confine insuperabile e intangibile ed è uno dei fini fondamentali dell’esercizio del potere. L’azione politica in democrazia deve avere come valore specifico non promettere la salvezza, pretendere di indicare le vie per raggiungere il bene (caratteristiche queste proprie dei regimi autoritari e dittatoriali), ma nemmeno ingenerare atteggiamenti rassegnati e fatalistici rispetto alla possibilità di migliorare l’esistente. L’accettazione dell’imperfezione come aspetto irriducibile dell’esistenza deve essere accompagnata da un incessante sforzo per il progresso della collettività e l’eliminazione degli ostacoli al pieno godimento dei diritti, tutelando e garantendo la diversità di idee e progettualità attraverso la divisione dei poteri, l’informazione libera e la reciproca autonomia tra potere economico e politico.
“Il popolo, la libertà e il progresso sono il fondamento della democrazia, ma se uno di essi si emancipa dai propri rapporti con gli altri – sfuggendo così a ogni tentativo di limitazione ed ergendosi a unico principio –, si trasforma in pericolo: populismo, ultraliberalismo, messianismo sono i nemici profondi della democrazia”. (Tzvetan Todorov – I nemici intimi della democrazia). I movimenti populisti e di estrema destra che negli ultimi anni hanno raccolto ampi consensi e hanno assunto anche ruoli di governo, come è avvenuto con l’elezione di Donald Trump quattro anni fa alla presidenza degli USA, sono la manifestazione della rottura di questo fondamentale equilibrio. La concezione strumentale delle istituzioni da occupare e non da governare, il richiamo alla Costituzione funzionale solo alla conquista del potere ma da calpestare e rigettare se diviene un ostacolo al mantenimento dello stesso, l’alterità sostanziale rispetto ai principi dello stato di diritto, la radicalizzazione della contrapposizione con l’avversario politico, la rivendicazione del leader di essere la voce autentica e l’interprete esclusivo della volontà del popolo per cui è inconcepibile anche la remota possibilità di una perdita di consenso, la sconfitta elettorale considerata unicamente effetto di brogli, un furto, un attentato alla nazione e un oltraggio al popolo, la rimozione della realtà in favore di una narrazione falsata costituiscono i tratti caratterizzanti dell’estremismo di destra, nazional-populista, che oggi anziché rovesciare la democrazia e sostituirla con la dittatura, mira a snaturarla dall’interno, a neutralizzarne gli istituti, a preservarli solo nella forma e a svuotarli della sostanza.
L’abuso del ruolo di presidente per perseguire i propri interessi personali e del proprio clan, il ricorso sistematico alla menzogna per accreditare una narrazione assolutamente falsa e fuorviante ma funzionale al mantenimento del potere, l’uso dei social finalizzato a manipolare l’opinione pubblica e far leva sulla credulità, particolarmente di quella parte della popolazione meno istruita e dotata di capacità critica, l’ammirazione e la vicinanza politica espressa a più riprese nei confronti di leader estremisti e antidemocratici come Putin, Erdogan e Bolsonaro sono stati la cifra caratterizzante i quattro anni di presidenza di Donald Trump. Pertanto il suo disprezzo per la democrazia, il voler sovvertire l’esito a lui sfavorevole del voto alle presidenziali ricorrendo all’accusa, totalmente infondata, di brogli elettorali contro gli avversari politici e anche i suoi stessi compagni di partito, indisponibili a piegarsi ai suoi diktat, l’aver ispirato nei fatti un vero e proprio tentativo di colpo di stato pur di non lasciare il potere, istigando i suoi sostenitori alla violenza per intimidire i rappresentanti del popolo e indurli a ribaltare i risultati elettorali e sfociata il 6 gennaio nella gravissima irruzione di un manipolo di facinorosi armati nell’aula del Congresso, dove deputati e senatori erano riuniti in seduta comune per certificare l’elezione a presidente di Joe Biden, il quale ha prevalso sia nel voto popolare sia nel complesso meccanismo di attribuzione dei delegati dei singoli stati, non meravigliano affatto. Ha pienamente ragione l’ex presidente USA Barack Obama quando afferma: “La storia ricorderà a ragione la violenza di oggi al Campidoglio, incitata da un presidente in carica che ha continuato a mentire senza fondamento sul risultato di un’elezione legittima, come un momento di grande disonore e vergogna per la nostra nazione. Ma ci staremmo prendendo in giro se la considerassimo una totale sorpresa”.
Quanto avvenuto a Washington è uno sfregio gravissimo alla democrazia americana, la più antica del mondo, che ha dimostrato comunque di possedere la solidità necessaria per arginare e neutralizzare un attacco devastante, ma è anche e soprattutto un monito rivolto a tutti noi, un invito ad abbandonare cautele e titubanze e ad opporci risolutamente ai partiti e movimenti nazional-populisti, ai tanti emuli ed ammiratori di Donald Trump, che occupano la scena politica anche nel nostro paese, i quali si ergono a paladini e interpreti esclusivi di un popolo che invero disprezzano e vogliono semplicemente ridurre a finzione teatrale, asservendolo ai propri disegni. La democrazia non è affatto una conquista definitiva, ma è fragile, esposta a pericoli continui, necessita il nostro contributo, deve essere incessantemente costruita, alimentata e difesa.
Neanche con un dito!
“Un uomo che ci picchia è uno stronzo. Sempre. E dobbiamo capirlo subito. Al primo schiaffo. Perché tanto arriverà anche il secondo, e poi un terzo e un quarto. L’amore rende felici e riempie il cuore, non rompe costole e non lascia lividi sulla faccia. Pensiamo mica di avere sette vite come i gatti? No. Ne abbiamo una sola. Non buttiamola via” (Luciana Littizzetto)
Vorrei tanto non scrivere della violenza sulle donne.
Mi piacerebbe che il 25 novembre fosse una ricorrenza anacronistica, obsoleta, memoria di una barbarie definitivamente sconfitta, retaggio di un’epoca tramontata, contrassegnata dal sigillo dell’incomprensibile e dell’assurdo, espressione di una malvagità che l’umanità si è lasciata per sempre alle spalle.
Mi piacerebbe non sentire pronunciare nei notiziari televisivi e non leggere sulle pagine dei giornali la parola femminicidio, non ascoltare racconti di carneficine domestiche. Purtroppo l’umanità continua a segnare il passo. La realtà ci costringe a fare quotidianamente i conti con brutalità assurde e inaccettabili compiute da autentici mostri ai danni delle donne e sempre più frequentemente, in un delirio distruttivo che non risparmia niente e nessuno, anche dei figli, agnelli sacrificali funzionali ad infliggere la sofferenza inaudita della perdita più atroce a colei che ha osato sottrarsi al proprio potere e rivendicare spazi di autonomia, a misurarci con storie di umiliazioni e soprusi che si consumano soprattutto nel chiuso delle mura domestiche e restano avvolte nel silenzio e nell’indifferenza. Le violenze conquistano l’onore della cronaca solo quando assumono vesti eclatanti e sfociano in gesti estremi e nell’omicidio, impossibili da nascondere o mascherare, ma ordinariamente presentano le sembianze della prevaricazione sottile e subdola, si nascondono nelle pieghe e nei dettagli apparentemente irrilevanti, nei piccoli gesti che raccontano una malevolenza radicata e un disprezzo profondo per la donna. Uomini orrendi, che osano chiamare amore quello che in realtà è l’esaltazione del proprio egoismo e la sua assoluta negazione.
È duro incrociare e sostenere lo sguardo di una donna violata ed abusata, che ha creduto nell’amore e ha messo in gioco se stessa, pensando di poter costruire un percorso di vita, di ritagliarsi spazi di serena realizzazione a fianco della persona amata e si è scoperta invece vittima di una possessività asfissiante, considerata alla stregua di un oggetto, privata di dignità e rispetto, precipitata in un incubo, in un inferno di sofferenze e degrado, soggiogata fisicamente e psicologicamente al punto da ritenersi sbagliata, esclusiva responsabile dei maltrattamenti subiti, colpevole della propria condizione, carnefice insomma di se stessa e non vittima. Frequentemente la sua colpa più grande è l’illusione di poter cambiare il proprio uomo, di poterne guarire l’ego malato, di poterlo aiutare ad uscire dal pantano popolato di incubi e ossessioni in cui è rintanato.
“Come hai fatto a non accorgertene?”.
“Come mai non te ne sei andata prima?”
“Perché non hai chiesto subito aiuto?”.
“Se hai accettato di restare in fondo così male non doveva essere….”.
“Sei fuggita da una prigione nella quale stavi per tua volontà e dunque che prigione era? Nessuno ti obbligava”.
Chissà quante volte abbiamo sentito ripetere queste parole, trasudanti scetticismo e prive di umana empatia e comprensione. Parole e domande come lame affilate capaci di ferire e umiliare ancora una volta le donne che, con grande sofferenza, si affrancano dalle catene e riescono a raccontare la loro esperienza sconvolgente. È difficile spiegare a chi non lo ha vissuto sulla propria pelle come sia stato possibile arrivare fin lì, spingersi al limite ultimo e perfino superarlo, capire che la sottomissione è una trappola, un gorgo in cui si viene risucchiati poco alla volta e spesso dolcemente attraverso una gentilezza formale al limite dell’irritante, una cortesia di linguaggio che è solo inganno, una attenzione affettata e insidiosa e una volta catturate è complicato divincolarsi, uscirne, liberarsene, superare quella barriera che impedisce persino di mandare segnali all’esterno, di comunicare quello che si sta subendo agli altri, i quali peraltro molto spesso nemmeno vogliono sapere.
Lungamente la violenza sulle donne è stata ritenuta socialmente accettabile, anzi normale, solo perché in moltissimi casi veniva subita supinamente e pertanto era invisibile o quantomeno è stato un tema ignorato, stimato irrilevante, non meritorio di attenzione, considerato da alcuni un tabù. Un mondo sommerso, nascosto e negato, nel quale reticenza, menzogna e neutralità l’hanno fatta da padrone e il silenzio ha aiutato oppressori e carnefici. Accettare e sopportare tacendo è stato l’imperativo per le donne: altre soluzioni o vie di uscita non erano possibili o immaginabili.
Nonostante gli sforzi e le lotte portate avanti per abbattere la concezione patriarcale delle relazioni familiari, il furore padronale e il senso del possesso maschile radicato e condiviso, il retaggio consolidato di un’idea della donna come oggetto di cui disporre a piacimento e della sua sottomissione all’uomo ancora resiste, come anche il muro dell’omertà che spesso circonda soprusi e violenze. Disinnescare un simile pensiero è indispensabile, ma purtroppo il solo deterrente della punizione non riesce a fermare la mano di chi usa violenza, strangola, soffoca, brucia e uccide. Molte donne vengono massacrate dopo aver denunciato e tante altre non sanno, possono o riescono a farlo. Pertanto contestualmente alla repressione è necessario investire in cultura e formazione, farmaci che non producono effetti immediati ma a medio e lungo termine: educare al rispetto della donna, proporre un modello relazionale improntato all’accoglienza in cui l’altra non è un possesso, un oggetto da controllare e dominare perché nessuno è mio o tuo….. Ci vorrà del tempo, ma ogni minuto di ritardo costerà molto in termini di traumi indelebili e vite.