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In tempi di teatri chiusi e di attori mestamente costretti a star lontani dai palcoscenici, impossibilitati a regalarci magistrali interpretazioni degli intramontabili testi di Chekov, Pirandello, Shakespeare o Goldoni per via della pandemia, a rubare le scene, non mancando di genialità perversa, è tra l’incomprensibile, il goliardico e l’indecoroso la politica politicante, la quale si esibisce tracotante in un teatrino di bassa fattura e niente affatto divertente ad onor del vero, nel quale i fantastici protagonisti con grande impegno si cimentano con testi improvvisati, intraprendono giravolte di genialità ineguagliabile e si concedono balletti strabilianti.

Spettatori disincantati e coinvolti nostro malgrado, con il fiato sospeso e sempre in attesa dell’immancabile colpo di scena, assistiamo da qualche giorno a bocca aperta e purtroppo impotenti all’ennesima crisi di governo, figlia dello spariglio portato con lucida determinazione da uno dei protagonisti più smaniosi di riacquistare visibilità politica, il cui obiettivo, nemmeno tanto nascosto, è riconquistare una centralità fatalmente perduta, un conveniente spazio di attenzione mediatica e risollevare le magnifiche sorti e progressive del movimento da lui fondato, il quale malgrado gli sforzi profusi sembra condannato a consensi da prefisso telefonico. Ostinato e cieco anche dinanzi all’evidenza, non si rassegna al fatto di aver dilapidato un patrimonio ingente di fiducia e di consensi, immolandoli scientemente sull’altare del proprio smisurato narcisismo.

So di attirarmi critiche e improperi dei suoi più accaniti estimatori, ma personalmente non ho mai amato Matteo Renzi, neppure quando era all’apice dei consensi, osannato e riverito, considerato un leader dal futuro luminoso, destinato ad essere a lungo uno dei protagonisti indiscussi della politica italiana, e non per antipatia personale, più semplicemente per una radicale incompatibilità con il suo modo di intendere politica, funzione e ruolo dei partiti, rapporto con i cittadini e governo del paese, per il suo titanismo, il suo solipsismo e la sua autoreferenzialità. Colui che assume il compito e la responsabilità di guidare una comunità deve avere la capacità di relazionarsi e ascoltare gli altri, l’intelligenza di misurarsi con proposte e idee alternative alle proprie, l’umiltà di non ritenersi depositario unico e interprete esclusivo della verità e del bene e soprattutto di fare sintesi delle diversità. La capacità di affabulare e convincere, l’eloquio fluido e la battuta pronta creano simpatia, costituiscono un indubbio vantaggio per accaparrarsi consensi, ma finiscono per rivelarsi un fuoco fatuo se non si accompagnano a visione strategica, a progetti seri e validi e soprattutto poi se sono unicamente funzionali ad occupare il potere e le poltrone. 

Il senatore di Rignano notoriamente ama la teatralità, diciamola pure tutta è maestro insuperabile in questo genere di cose. E così in piena pandemia, che ogni giorno miete centinaia di morti, impone limitazioni alle nostre libertà e ha provocato una crisi economica e sociale senza precedenti, paragonabile soltanto a quella vissuta nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, si inventa un colpo di teatro senza precedenti, ritira i ministri espressi dalla sua forza politica, la cui rappresentanza in Parlamento invero nessun cittadino ha mai eletto, dato che per gran parte si tratta di fuoriusciti dal PD e per il resto di transfughi di altri partiti e movimenti, provoca la crisi del governo e si guadagna l’apertura dei notiziari televisivi, le prime pagine dei giornali e post a ripetizione sui social. Dopo aver trascinato il PD, di cui nel 2018 era segretario nazionale, alla peggiore sconfitta elettorale di sempre, un autentico tracollo, passa sdegnato all’opposizione e si dimette, sostituito da lì a poco da Zingaretti. Nasce il governo Conte, sostenuto da Lega e 5 Stelle. Ben presto il quadro cambia. La coalizione tra i due populismi non regge, manifestamente incapace di governare il paese. L’occasione è ghiotta per tornare protagonista. Matteo Renzi, torna ad agitarsi, fa in modo che Zingaretti dia il proprio consenso al governo Conte bis, sostenuto ora da una coalizione giallorossa, ma non contento lascia il PD e fonda Italia Viva. Il Movimento 5Stelle e il suo guru Beppe Grillo, che fino ad allora avevano tuonato contro il partito di Bibbiano e della corruzione, secondo le geremiadi dell’onestà in voga, mollano la Lega e si alleano con il vituperato PD.

Trascorrono settimane e mesi, ma si sa il personaggio non ama restare in ombra, ostaggio di una ordinarietà deludente e insoddisfacente. Si mette  così a studiare il prossimo colpaccio. Ad un certo punto comincia ad agitare lo spettro della crisi perché insoddisfatto del governo e delle sue scelte e alla fine la traduce in fatti.

La conferenza stampa durante la quale Matteo Renzi ha annunciato le dimissioni dal governo dei ministri del suo movimento è sembrata la trasposizione di una nota favola di Esopo. Dopo che il Presidente del Consiglio ha sostanzialmente accolto tutte le sue richieste, ha alzato ancora il tiro e rivelato all’universo mondo che il problema non era il piano di investimenti dei miliardi che ci concederà l’Europa per uscire dalla crisi, la task force per attuarlo o la delega ai Servizi Segreti ma Giuseppe Conte, l’uomo per tutte le stagioni e le possibili coalizioni, che un anno fa andava benissimo e oggi non più perché ha mire da dittatore sanitario, da accentratore seriale, agogna quei pieni poteri negati a suo tempo all’altro Matteo, quello del Papeete. Probabilmente c’è voluto un po’ perché l’astuto senatore di Rignano s’accorgesse delle mire subdole di Giuseppe Conte, visto che hanno governato insieme non pochi giorni. Tuttavia volutamente sembra dimenticare che quando è stato lui Presidente del Consiglio non ha disdegnato affatto il ricorso a canguri, truppe cammellate e altro bestiario da regolamenti parlamentari per riscrivere la Costituzione in modo da garantirsi il tanto oggi vituperato accentramento di poteri nelle proprie mani. Oh, quanto corta è la memoria a volte……

Uno spettacolo grandioso indiscutibilmente. Un copione quello messo in scena che possiede un sapore antico, compresa la ricerca spasmodica di una pattuglia di novelli “responsabili”, oggi definiti “costruttori”, pronti a far da stampella al governo traballante, a sostituirsi ai renziani per il prossimo giro di valzer. Tutto si rinnova nel nostro paese tornando all’antico. Si sa, il trasformismo è male endemico della nostra democrazia, anche se negli ultimi anni il fenomeno ha assunto toni parossistici.

In ogni caso lo spettacolo è solo all’inizio e i colpi di scena nei prossimi giorni sono assicurati.            

 

Pubblicato in Riflessioni
Domenica, 15 Marzo 2020 06:54

Come ci cambierà il virus

 

 

 

 

 

Viviamo l’esperienza del tempo rallentato, dilatato, che ha smesso di inseguirci in modo forsennato, in una corsa a perdifiato verso un altrove e un ulteriore inafferrabili e in fondo imprecisabili. Siamo immersi in una dimensione del vivere che ci lascia lo spazio e l’opportunità di assaporare lo scorrere di ogni singolo istante, di farlo nostro profondamente e autenticamente, di sperimentarne irripetibilità ed essenzialità, al contempo accorgendoci di quanti istanti unici abbiamo perso per distrazione, per superficialità o perché presi da mille affanni.    

Viviamo l’esperienza degli spazi angusti, delle mura amiche delle nostre case che avvertiamo soffocanti, opprimenti. Confinati in casa, ci aggiriamo da una stanza all’altra all’inseguimento di un soffio di quella desiderata libertà che questa prigionia forzata sembra sottrarci goccia a goccia, in un distillato lento, amaro e duro da trangugiare. Tuttavia se ci fermiamo un istante percepiamo che proprio quelle mura, invalicabili e ostili, raccolgono le nostre storie, raccontano l’ordinarietà delle nostre vite, i piccoli gesti carichi di amore, le presenze di familiari e amici date per scontate al punto da non coglierne più la potenza arricchente, l’asprezza di conflitti, piccoli e grandi, a motivo di inquietudini e nervosismi che il quotidiano ci riserva, la dolcezza di parole scambiate, di carezze date e ricevute a cui spesso non attribuiamo il giusto peso e la necessaria importanza. Abbiamo l’opportunità di ricostruire e recuperare il significato della normalità degli affetti che ci rende pienamente noi stessi, senza la quale saremmo perduti in un indistinto senza emozioni e perciò senza futuro.

Viviamo l’esperienza del guardare lo scorrere degli eventi umani da una prospettiva inedita, distante dalle abitudini consolidate. Troppe volte dimentichiamo che ogni avvenimento, personale o collettivo, è tale nella sua oggettività esterna ed esteriore, ma si riverbera nella nostra interiorità, produce effetti nel nostro io, inducendoci a pronunciare parole e compiere scelte. Aver rallentato il flusso del vivere, ci offre l’opportunità di prendere coscienza di quanto sia importante, anzi vitale, affacciarci nel mondo dalla finestra della nostra interiorità, da un punto d’osservazione e valutazione realmente nostro, liberandoci da suggestioni esterne accattivanti, da condizionamenti spesso subdoli e nascosti, da punti di vista per partito preso, indotti da manipolatori esperti e senza scrupoli che tentano in ogni modo di orientare opinioni e desideri, illudendoci che siano nostri. Fare a meno di riflettere e ragionare e accodarci al flusso delle opinioni prevalenti, è spesso una soluzione comoda ma di certo non è un buon affare, perché è cessione inaccettabile della nostra libertà.          

Viviamo l’esperienza del viaggiare pur restando fermi, dello scoprire luoghi e culture sorprendenti, solo in apparenza estranee e lontane perché tutte innervate di quella umanità che è nostra e di tutti parimenti, sia pur declinata secondo linguaggi e in contesti relazionali differenti ma in fondo uguali. La passione ardente negli occhi degli innamorati, i moti di rabbia e ribellione per una libertà o un diritto negato, l’ostilità e il rancore per un torto subito possono essere espressi con suoni e timbri diversi, nelle mille lingue di Babele, ma tutte raccontano la nostra unica essenza.     

Viviamo l’esperienza della fragilità, della debolezza, della malattia che possiede le sembianze di un virus sconosciuto, che ci ha aggredito e ha sconvolto le nostre vite, rendendo necessario l’isolamento in casa, per tanti il ricovero in una asettica stanza di rianimazione e facendo sperimentare la più terribile delle esperienze umane, la morte, a quanti non ce la fanno, in particolare anziani, senza il conforto di una presenza, di uno sguardo, di una voce familiare che possa renderla più sopportabile. Trovo bellissime le parole di Eugenio Borgna, il quale nel suo saggio “La fragilità che è in noi”, ci ricorda che così come la sofferenza passa ma non passa mai l’avere sofferto, così la fragilità “è un’esperienza umana che, quando nasce, non mai si spegne in vita e che imprime alle cose che vengono fatte, alle parole che vengono dette, il sigillo della delicatezza e dell’accoglienza, della comprensione e dell’ascolto, dell’intuizione dell’indicibile che si nasconde nel dicibile”.

Viviamo l’esperienza del rifiuto, dei porti chiusi, del vederci respinti e indesiderati, del sentirci dire “non ti vogliamo”, di essere considerati moderni untori di un morbo dispensatore di sofferenze e morte. Tutto ciò inciderà la nostra carne viva e potrà essere occasione per ripensare profondamente quello che fin qui siamo stati, i tanti atteggiamenti stupidi e abominevoli di cui ci siamo resi interpreti. La speranza è che le lacrime versate in questi giorni possano essere il farmaco potente che sconfigge un’altra malattia che ha infestato menti e cuori in questi ultimi anni, la cultura dello scarto, della cattiveria, del respingimento degli ultimi del mondo che bussano alle nostre porte in cerca di futuro e di mettere in circolo nelle vene della nostra società gli anticorpi della solidarietà, dell’accoglienza e dell’amore.

Viviamo l’esperienza del sentirci un “noi” e non più esclusivamente un “io”, chiusi nell’autoreferenzialità, indifferenti a quanto ci accade intorno, impegnati a custodire il nostro spazio egoistico. Ci siamo riscoperti comunità e da questa emergenza possiamo ricavare una lezione straordinaria di fratellanza e condivisione: la tua vita è anche la mia, la mia salvezza non dipende solo da me ma anche dagli altri e sono chiamato a collaborare per costruire il bene di tutti, il bene comune, proteggendo i più deboli, i più esposti, gli anziani, i malati, i bambini…. L’isolamento poi è solo apparente perché gli altri sono presenti accanto a noi con la loro lontananza e la loro assenza, è atto sociale di profonda solidarietà ed esercizio massimo della libertà che è realmente tale se non dimentichiamo le conseguenze delle nostre azioni nella vita degli altri, della nostra città e dell’intero Paese. Soprattutto abbiamo scoperto che i veri eroi, gli idoli da ammirare e imitare sono quanti nel silenzio e nel nascondimento, quotidianamente spendono le loro esistenze per gli altri, i medici, gli infermieri in questo frangente particolare e in generale quanti operano in modo disinteressato e senza clamori e fanfare aiutando quanti hanno bisogno.

Pubblicato in Riflessioni
Domenica, 19 Gennaio 2020 12:27

Elogio dei virtuosi

 

 

 

I virtuosi non fanno scalpore, vivono per lo più nell’ombra, nascosti in una normalità che non attira l’attenzione, raramente occupano le prime pagine dei giornali, aprono i notiziari delle emittenti televisive, spopolano sui social e quando accade è sempre perché compiono gesti reputati eroici, eclatanti ed inaspettati da quanti hanno l’abitudine alla mediocrità e non considerano la virtù normalità. In ogni caso la loro fama è effimera, dura lo spazio di un mattino, presto cedono il passo ad altri più seducenti ed accattivanti.

L’eroe negativo, il mostro o più semplicemente il furbo, che usa astuzia e perspicacia per aggirare e raggirare, eludere e scansare impegni, obblighi e fatiche attira molto più l’attenzione, suggestiona e catalizza simpatie, accondiscendenza e comprensione, rappresenta per tanti, più o meno consciamente, un modello, quanto si vorrebbe essere e non si è per codardia o per mancanza dell’occasione favorevole.

La virtù è una strada faticosa da percorrere ricercando la saggezza, postula la coscienza del nostro limite, della nostra parzialità e insufficienza. A lungo è stata concepita come un ideale di perfezione e di fatto rimossa dal quotidiano in quanto irraggiungibile e utopistica e non un obiettivo indispensabile del nostro vivere, per realizzarci autenticamente come persone e realizzare ogni giusto desiderio.

 

 

La virtù non si genera da se stessa, non passa per l’affermazione dell’”Io”, non è frutto della volontà, come erroneamente si potrebbe credere. La volontà può divenire anzi la sua nemica più acerrima, perché cristallizza i pregiudizi ed esalta l’orgoglio, non aiuta a vedere, ascoltare e capire fatti e persone e finisce per ridurla ad una sovrastruttura moralistica, dispensatrice di meriti e debiti. Essa nasce invece dalla relazione vera e libera con la realtà, si concretizza negli innumerevoli contesti con le proprie diversità e specificità, non è una qualità, ma un abito, una buona abitudine, in vista del compimento del bene, è esperienza del nostro essere “tu”, dell’essere il “tu” di un altro, che ci consente di comprendere qualità e valore di quanti ci sono accanto, di sostenere la tensione della diversità, di comporre le conflittualità, di meravigliarci della bellezza e di gustarla da qualunque parte essa provenga, di tollerare ed accettare gli errori, di cogliere il richiamo al bene che alberga nell’altro.

Il ribaltamento di mentalità, il salto sostanziale che siamo chiamati a compiere sono evidenti: per essere virtuosi non dobbiamo possedere la virtù ma esserne posseduti, abitati e nutriti.

La complessità del ragionamento non deve spaventarci.

Parlare di virtù non è un discorso astratto, lontano dalla concretezza della vita. Al contrario è coraggio di riflettere, di riconsiderare noi stessi, i nostri atteggiamenti, le nostre convinzioni e scelte, soprattutto quelle apparentemente meno rilevanti e più ripetitive, sotto una prospettiva altra.

Fare ciò che è giusto, considerare le regole del vivere sociale non come un peso da aggirare, eludere, trasgredire, brigando e dissimulando per farla franca e non subire conseguenze e ripercussioni, avvertire il senso della responsabilità che ci unisce gli uni agli altri, svolgere il proprio lavoro con coscienza e senso del dovere, pensare al bene comune e non solo ai propri interessi personali ed egoistici, accogliere con  riguardo la diversità, il pensiero, la cultura e la fede religiosa di chi ci vive accanto, rispettare l’ambiente, non violentare la natura è questa la virtù.

Il terribile ordinario è il terreno della nostra vita da fecondare pazientemente e costantemente con la virtù. Dobbiamo partire dal piccolo e dal quotidiano.

Le strade della nostra città soffocano per il traffico impazzito, male odorano per i nostri rifiuti abbandonati. Parcheggiare sui marciapiedi, al posto dei diversamente abili o davanti l’ambulanza, intralciandone o impedendone di fatto la possibilità di soccorrere quanti dovessero averne bisogno, è per alcuni una assurda normalità. Lamentarsi per quello che non va è un ritornello stonato ed irritante se ripetuto da chi non si preoccupa dell’incoerenza tra quanto denuncia con le parole e i propri comportamenti personali, se il dovere di agire nella legalità sembra debba riguardare sempre gli altri e mai se stessi.

Tanti, la stragrande maggioranza scelgono la strada opposta, la strada della virtù e certamente non fanno notizia: pagano regolarmente le tasse, non schizzano in mezzo al traffico in barba a tutte le regole e infischiandosene della sicurezza altrui, amano il bello e la cultura, pensano al bene collettivo e si rimboccano le maniche per aiutare i meno fortunati in silenzio e senza fanfare.

Raccontare di costoro non fa scalpore, ma quanti fanno informazione ne dovrebbero avvertire la responsabilità.

È giusto parlare di ciò che non funziona, denunciare ingiustizie e cattive pratiche, ma non bisogna dimenticarsi del bello e del buono, delle storie di tanti virtuosi che possono nutrire cuori e menti, ispirare e regalare fiducia nel futuro.

Aristotele diceva che “la virtù è più contagiosa del vizio, a condizione che venga raccontata”.         

Pubblicato in Riflessioni