L’ammissione è di qualche settimana fa e, pur se passata sotto silenzio, è di quelle importanti: non si amministra una città come Sezze a suon di mi piace raccolti sui social.
È importante questa presa di coscienza da parte di quanti finora hanno pensato che per fare politica bastassero i social, il ricorso ad un linguaggio tranciante, l’autodefinirsi i migliori e il nuovo contrapposto al vecchio, additato come il responsabile di tutti i mali, la demonizzazione degli avversari e il prospettare soluzioni semplici a problemi complessi, all’insegna del populismo più stantio. Dopo aver ridotto il confronto politico ad uno scontro manicheo tra bene e male, trascurando idee, programmi e contenuti, l’imbarbarimento prodotto, in un fatale contrappasso, rischia di ritorcersi contro chi ne ha beneficiato per la propria affermazione.
Il tempo è galantuomo e alla fine sta presentando il conto al populismo in salsa setina. La speranza di un cambiamento di tanti cittadini che avevano ceduto alle sirene della demagogia e accordato una valanga di consensi a quanti si sono presentati come gli interpreti del buon governo, si è venuta trasformando rapidamente in disillusione, ancor più che fin da subito ha prevalso il trasformismo di chi, acquattato nelle retrovie, al momento giusto è tornato a prendersi scena ed incarichi, in una sorta di eterno ritorno del sempre uguale, cui si sono aggiunti l’impossibilità di mantenere le promesse strabilianti fatte e una distribuzione di incarichi e prebende mai vista in precedenza con tanta pervicace e scrupolosa scientificità.
Tuttavia le parole hanno un peso e la speranza è che questa conversione sia il frutto di un’attenta riflessione, di una presa di coscienza degli errori commessi e non una reazione furba e strumentale, finalizzata a tamponare il calo di consensi e a darsi un tono istituzionale. Certo ha il sapore di un’esplicita ammissione del proprio fallimento, dell’essersi arenati nelle secche dell’immobilismo, dove li ha sospinti il vento della presunzione, dell’assenza di visione politica e della scarsa progettualità amministrativa. A tutto ciò è poi da aggiungere che mentre si predicano buoni propositi e spirito di collaborazione, c’è chi non resiste alla tentazione di far ricorso ancora e sempre alla clava mediatica e continua imperterrito ad utilizzare i social per colpire sul piano personale quanti fanno sentire la propria voce dissenziente. Piovono le offese a catinelle, gli insulti e gli sguardi torvi vengono rovesciati a secchiate e a nulla rileva il merito delle questioni sollevate, la loro fondatezza e veridicità. Guai osare il dissenso o disturbare l’eletto, verso il quale si deve deferenza e al massimo è consentito unirsi al coro dei plaudenti. Una idea strana di democrazia, che ad onor del vero è patrimonio di molti politici, locali e non, di questi ultimi anni, a prescindere dagli schieramenti, e che ha come bersaglio quanti pensano in autonomia. Lo scadimento della classe politica, dai livelli più bassi fino a quelli più alti, ha generato autentiche mostruosità, ha fatto perdere il senso del bene comune, ha spinto verso una personalizzazione autoreferenziale e l’essenzialità di una dialettica tra posizioni diverse, che costituisce il sale della democrazia, è considerata un problema anziché una risorsa irrinunciabile.
Il richiamo ad un presunto riformismo trasversale, serio e non di facciata, che si trova non solo in una parte dello schieramento politico, in quanto le persone capaci e animate da propositi autentici di cambiamento si trovano dappertutto, esprime una visione straniante della politica, una idea approssimata della sua funzione e una confusione sul piano valoriale che finisce per disorientare piuttosto che essere da stimolo alla crescita democratica della comunità.
Riformismo è termine purtroppo abusato, ha finito per perdere qualsiasi pregnanza concreata, è divenuto un’etichetta vuota. Peraltro riformisti si definiscono tutti, di qualsivoglia schieramento, ma il punto è che ognuno è riformista a modo suo, cioè sulla base delle proprie convinzioni, dei propri valori di riferimento e le soluzioni ai problemi non sono intercambiabili e tantomeno univocamente giuste o sbagliate. Il riformismo di quanti si riconoscono nella destra possiede caratteristiche diverse, anzi opposte a quelle di quanti si identificano con la sinistra. E viceversa ovviamente. Non si tratta di dettagli irrilevanti ed in gioco è il senso stesso della politica, della visione del futuro di una comunità e degli obiettivi che si intendono perseguire attraverso i programmi concreti sui quali si chiede il consenso dei cittadini ad ogni passaggio elettorale.
Il bene comune, lo sviluppo solidale, la risoluzione dei problemi possono e devono essere perseguiti senza annullare le diversità, senza ridurre tutto ad un calderone indistinto, ad una brodaglia indigeribile che finisce unicamente per allontanare i cittadini dalla partecipazione democratica, li fa rifugiare nell’astensionismo o li sospinge tra le braccia del primo avventuriero che passa.
Infine la politica vera, quella bella, che pensa agli interessi della comunità, non si pone come obiettivo l’abbattimento dell’avversario, non usa gli strumenti del potere a disposizione per colpirlo sul piano personale e consumare sordide vendette, non lo scredita gratuitamente per affermare se stesso e favorire i propri sodali, non manipola i fatti sacrificando la verità e la giustizia.
Il dramma è che si scambiano il narcisismo privo di riferimenti ideali, gli interessi più o meno esplicitati, le consorterie unite dalla logica della fedeltà personale, la gestione dei pacchetti di tessere e consensi da parte dei cacicchi con cui si tengono in ostaggio partiti e movimenti per la politica, quando invece sono la sua totale negazione.
Se non si sciolgono questi nodi è difficile che la nostra comunità possa compiere passi in avanti e rendersi artefice di un futuro migliore del mediocre presente. La strada da percorrere è ardua, ma senza l’impegno di tutti e di ciascuno resterà una chimera, un orizzonte irraggiungibile.