Rappresentare il male assoluto, un’atrocità di dimensioni devastanti, immaginare l’inimmaginabile mediante la narrazione della banalità quotidiana della normalissima famiglia “ariana” di Rudolf e Hedda Höss e dei loro cinque figli, che vive accanto all’orrore del campo di sterminio di Auschwitz, separato dalla loro incantevole e bucolica residenza soltanto da un alto muro grigio, oltre il quale si odono il crepitare delle armi, il ringhiare dei dobermann dei kapò, le urla delle vittime e si alzano i fumi dei corpi degli ebrei inceneriti, mentre di notte, dietro le tende chiuse, si scorge il baluginare sinistro dei forni crematori è la cifra visiva nuova e l’angolo prospettico, originale e mai utilizzato, che Jonathan Glazer ha scelto per raccontare l’Olocausto.
La zona d’interesse, il film del regista inglese, a differenza delle numerose opere cinematografiche realizzate sul tema della Shoah fa un passo indietro rispetto alle porte dell’infermo, non mostra mai l’interno del campo di sterminio e si concentra invece su chi vive intorno a quell’abisso, ci fa sprofondare dentro l’orrore senza mai mostrarcelo e ciò che non vediamo viene evocato attraverso una terrificante sinfonia di suoni spaventosi che vengono associati alle immagini della vita quotidiana di una famiglia della media borghesia tedesca.
Rudolf e Hedda Höss sono tedeschi. Hanno accettato l’invito a trasferirsi ad est, in Polonia, e a stabilirsi vicino ad Auschwitz, in una casa costruita nell’area circostante il campo di sterminio, chiamata appunto zona di interesse da cui il film prende il titolo, dove in apposite abitazioni risiedono gli ufficiali e i loro parenti.
Rudolf Höss non solo è il comandante del campo di Auschwitz, ma soprattutto colui che ne ha voluto la costruzione per come lo conosciamo e lo ha reso un modello di efficienza, compresa l’introduzione del gas Zyklon B nelle camere a gas.
La vita della famiglia Höss si dipana in una tranquilla normalità. Nei fine settimana, insieme ai loro bambini, Rudolf e Hedda fanno picnic e vanno a nuotare in riva a un lago. Spesso organizzano feste nella loro bellissima casa, invitando amici, vicini e colleghi per rilassarsi al sole e trascorrere piacevoli giornate in compagnia. Rudolf si ritrova a casa con i colleghi anche per discutere dei progetti, raffigurati in disegni e schemi, per l’efficientamento di una realtà di morte trattata come una fabbrica.
Il loro giardino è pieno di piante e fiori e hanno anche una serra. Hedda, quando si prospetta la possibilità che debbano andare via e lasciare quell’ambiente idilliaco perché Rudolf Höss deve trasferirsi a lavorare altrove, protesta e pretende di restare perché lì i figli stanno troppo bene e possono giocare all’aria aperta.
In tutto il film il comandante di Auschwitz viene mostrato all’interno del campo solo una volta, in un’unica inquadratura, che è poi uno stretto primo piano sul suo volto.
Rudolf Höss la mattina esce di casa e va a lavoro, come se il suo fosse un impiego qualsiasi. Una volta assolte le proprie incombenze quotidiane di organizzazione, gestione e controllo dell’efficientissima macchina della morte torna a casa, dalla sua famiglia. Legge le favole della buonanotte ai figli, scambia qualche battuta con la moglie, si preoccupa del raggiungimento dei numeri trimestrali che possono portargli una promozione lavorativa. L’attenzione ai dettagli della quotidianità della famiglia Höss non serve per abbagliare o per stupire, ma per registrare la puntuale cronaca degli eventi, soprattutto per farci immergere in un preciso stato d’animo ed entrare dentro un contesto relazionale ed emotivo che fa da contraltare a quanto nel frattempo si consuma dall’altra parte del muro grigio, dove la macchina dell’orrore non si ferma un istante, accompagnata dalla colonna sonora dei lamenti delle persone mandate allo sterminio, del crepitare delle armi e dello sferragliare dei treni in arrivo.
Rudolf, Hedda e i loro figli non badano minimamente a questi suoni, divenuti una sorta di sottofondo abituale, non in grado di scalfire il vuoto delle loro esistenze, totalmente avvolte nella “banalità del male” che si consuma lì a pochi passi.
Jonathan Glazer vuole farci comprendere come è possibile che accadano cose del genere e soprattutto chi le fa accadere, chi ne porta la responsabilità. Rudolf e Hedda Höss non vengono presentati come dei mostri, ma come persone comuni, aspetto questo che rende ancor più agghiacciante la loro crudeltà. L’orrore dei campi di sterminio è stato organizzato da persone come loro, da padri e madri di famiglia, da mogli e mariti, da uomini e donne che hanno assorbito e poi inoculato negli altri e nella società mediante i loro discorsi, i loro atteggiamenti e le loro scelte il veleno antisemita. Insomma i campi di sterminio non sono il risultato dell’azione di alieni, di esseri soprannaturali o di qualche mostro primitivo, ma la decisione consapevole di esseri umani determinati a uccidere altri esseri umani. Alla fine della guerra, messi di fronte ad un così immenso orrore, in tanti si sono giustificati affermando di aver eseguito soltanto gli ordini. È così che funziona la normalizzazione del fascismo e dello sterminio di massa che mira all’ottundimento e l’abbrutimento delle coscienze.
La zona d’interesse ci costringe a guardare a quanto accaduto con la categoria del “noi” e non del “loro”, a riconsiderare il modo in cui abbiamo trattato questo capitolo della Storia, ci restituisce il giusto senso di un orrore inafferrabile e al contempo ci chiede non tanto e non solo di pensare al passato ma soprattutto di prestare attenzione al presente, alle tantissime tragedie che si consumano accanto a noi e di cui ci facciamo complici.
La più grande complicità è girarci dall’altra parte per non vedere.