Una città non è solo un agglomerato di costruzioni, case affastellate e strade. La sua dimensione materiale ha valenza simbolica, identifica una appartenenza.
Una città è un corpo vivo, possiede il cuore di chi la abita, il respiro di chi la vive, è rete di relazioni, patrimonio di storie collettive ed esperienze personali, è cultura e saggezza sedimentate e in permanente divenire e crescita.
Una città è comunità, convivialità delle diversità da comporre in un comune sentire che esalta la pluralità e non l’annulla, come i tasselli di un mosaico che hanno ognuno la propria originalità, non sono meramente giustapposti ma ordinati in delicata armonica mescolanza: solo così acquistano significato e possono costruire l’insieme.
Nel nostro tempo la parola identità è assai di moda, è uno slogan abusato e per questo fuorviante, è declinata secondo schematismi che la contraddicono nell’essenza. L’identità è coscienza di sé, della propria storia, dei propri punti di forza, delle proprie qualità e potenzialità e anche dei propri limiti e debolezze, ma è al contempo un magma incandescente, in continua trasformazione che non teme di farsi relazione, di aprirsi e accogliere. Solo includendo cresce, si irrobustisce, si rinnova e ha futuro.
Sezze, noi siamo una comunità millenaria e portiamo la responsabilità di questa nostra storia. Possediamo ricchezze architettoniche, artistiche, culturali, lingua e tradizioni il cui valore sta innanzitutto nella loro originalità. Possiamo contare su una miniera inesauribile di intelligenze, autentiche eccellenze in diversi campi, cui attingere per costruire insieme la città del futuro. È una fortuna non potenziale ma in atto, che ci fa essere ciò che siamo e che potrebbe renderci migliori, se solo fossimo curatori avveduti e appassionati di quanto abbiamo ricevuto in prestito dai nostri figli.
Se tale coscienza la tramutassimo in campanilismo sciocco, in un nostalgico sguardo rivolto all’indietro o peggio in un identitarismo settario, ne facessimo un mero strumento di contrapposizione, rifiuto dell’alterità, negazione del diverso e al contempo esaltazione della nostra autoreferenzialità, faremmo un cattivo servizio alla nostra città poiché tali atteggiamenti portano solo ed inevitabilmente disgregazione. Tuttavia parimenti deleterie sono l’indifferenza e la noncuranza verso le nostre radici, la nostra cultura comunitaria, i suoi simboli visibili, i suoi significati e contenuti in relazione al nostro vivere quotidiano, atteggiamenti questi sempre più frequenti trasversalmente a tutte le generazioni, che rischiano di condurci allo smarrimento e alla fagocitazione in un indistinto senza valori e riferimenti.
Fa male al cuore leggere di deturpazioni compiute ai danni di alcuni tratti delle mura poligonali che cingono la nostra città, testimoni e simboli della nostra antica civiltà. Si sono alzate grida indignate, si è invocato un maggior controllo del territorio e la giusta punizione per i responsabili. Prese di posizione condivisibili. Tuttavia sarebbe ipocrita limitarsi a considerare questo singolo gesto, peraltro di sicuro una bravata di ragazzi colpevoli innanzitutto di essere diseducati al bello e al rispetto dei beni comuni, e non vedere nell’insistente e reiterata vandalizzazione del nostro territorio, nell’incuria e nella progressiva dissipazione del nostro patrimonio materiale e immateriale la causa prima e scatenante di quanto accaduto. A meno di voler ritenere i responsabili di questo atto degli alieni, avulsi totalmente dalla realtà in cui viviamo, quanto accaduto è il risultato immediato e diretto del nostro fallimento educativo.
Indiscutibilmente le istituzioni pubbliche hanno una responsabilità primaria nel salvaguardare, conservare e rendere fruibili le nostre bellezze ed occorre che mettano in campo un’azione coordinata e continuata nel tempo a tale fine. Dissuadere mediante i controlli e sanzionare sono un aspetto non secondario, ma è impensabile e impossibile militarizzare un intero territorio. Bisogna ripartire dalle nostre scelte personali. Biasimare e condannare gli autori delle scritte su quei sassi millenari non ha senso se poi ci autoassolviamo ogni qualvolta con gesti e scelte eclatanti o piccole e irrilevanti ci uniamo alla sistematica deturpazione di Sezze: una finestra allargata, uno scarico abusivo, l’abbandono sistematico dei rifiuti, il pensare che una strada sia stata riqualificata e ripavimentata non per restituire qualità del vivere alle persone la abitano, ma per renderci più agevole il parcheggio della nostra auto fin sotto casa. E l’elenco potrebbe essere infinito, lo sappiamo bene.
Sezze ha bisogno non di bravi predicatori, ma di testimoni, capaci di tradurre l’amore per il bello e per la nostra storia, declamato con la bocca, in azioni e scelte quotidiane coerenti e conseguenti.
Ragionando e riflettendo sono riaffiorate nella mia memoria le parole di un grande italiano poco conosciuto, Peppino Impastato, giornalista, scrittore, poeta, attivista, ucciso dalla mafia a Cinisi (Palermo) in un finto incidente il 09 maggio 1978. “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. E’ per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.
Lo strumento educativo più efficace è l’esempio.
Il Guglietto (foto Walter Salvatori)