12 dicembre 1969. Un giorno apparentemente come tanti altri. Natale è vicino.
Milano
Piazza Fontana – Banca Nazionale dell’Agricoltura
Ore 16:37. Un ordigno di sette chili di tritolo esplode nel salone delle contrattazioni, affollato di clienti. Lo scenario che si presenta alle forze dell’ordine e ai soccorritori è apocalittico: un buco si è aperto al centro della stanza, corpi dilaniati e sangue dappertutto. I feriti sono 88, i morti 18. 13 muoiono sul colpo, la diciottesima vittima dopo un anno per le conseguenze dell’esplosione.
Piazza della Scala – Banca Commerciale Italiana
Viene ritrovato un ordigno esplosivo. La borsa che lo contiene viene recuperata e acquisita agli atti del processo. La bomba, che poteva fornire preziosi elementi per identificare gli attentatori,viene fatta brillare nel cortile interno dell’edificio.
Roma
Ore 16:55. Una bomba esplode nel passaggio sotterraneo che collega la Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto con quella di via San Basilio.
Ore 17:20 – 17:30. Due ordigni esplodono davanti all’Altare della Patria e all’ingresso del Museo del Risorgimento in Piazza Venezia. I feriti sono 16.
“Alla fine degli anni ’60 alcuni settori dello Stato, e mi riferisco ai servizi segreti, al SID, ai vertici militari e ad alcune forze politiche, pianificarono l’uso di giovani terroristi di estrema destra per fermare l’avanzata elettorale della sinistra, che allora sembrava inarrestabile. Le bombe servivano a spaventare i moderati e l’effetto politico veniva amplificato infiltrando e accusando falsamente i gruppi di estrema sinistra” (Gerardo D’Ambrosio, magistrato).
È la strategia della tensione che per oltre 20 anni insanguina l’Italia. L’obiettivo è sovvertire le istituzioni democratiche ed imporre una svolta autoritaria.
Il Questore di Milano, Marcello Guida, direttore sotto il fascismo del confino politico sull’isola di Ventotene, dove vennero detenuti Pertini, Spinelli, Terracini e altri antifascisti, e l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno intervengono immediatamente per condizionare le indagini su Piazza Fontana, depistarle, indirizzarle verso anarchici ed estrema sinistra e coprire i veri responsabili. Vengono eseguiti numerosi arresti. Giuseppe Pinelli, uomo mite e contrario alla violenza, viene fermato il 12 dicembre dal vicecommissario Luigi Calabresi e interrogato nella Questura di Milano per 72 ore nel tentativo di fargli confessare di aver aiutato Pietro Valpreda a compiere l’attentato. Valpreda, un anarchico da tempo trasferitosi a Roma e in quei giorni a Milano perché convocato per essere ascoltato dal Giudice Istruttore Amati in quanto indagato per un volantino contro il Papa, è il principale sospettato, la polizia sa dove si trova, ma viene arrestato solo quando si presenta in Tribunale il lunedì successivo. Il 16 dicembre Giuseppe Pinelli muore precipitando da una finestra del quarto piano della Questura.
Le indagini sugli anarchici e l’estremismo di sinistra non producono alcun risultato. Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda e tutti gli altri arrestati sono estranei agli attentati. Solo quando la magistratura rivolge l’attenzione ai neofascisti veneti di Ordine Nuovo emergono riscontri e prove vere, vengono rinvenuti arsenali di armi ed esplosivi. Il neonazista Franco Giorgio Freda e il suo complice Giovanni Ventura sono riconosciuti colpevoli di 17 attentati, ma assolti in appello per insufficienza di prove per la strage di Piazza Fontana, grazie anche ai depistaggi che costano una condanna per favoreggiamento a due ufficiali del SID, risultati poi affiliati alla P2. I processi celebrati negli anni sono stati a lungo una parodia della giustizia, un fare e disfare sentenze che hanno garantito l’impunità a burattinai e manovalanza. La sentenza della Cassazione del 2005, pur riconoscendo la colpevolezza di Freda e Ventura in quanto ideatori dell’attentato, li manda assolti per essere non più punibili in quanto processati e prosciolti con sentenza definitiva nel 1987 per i medesimi reati, in ossequio al principio giuridico del “ne bis in idem”. L’autore materiale, la persona che lasciò la bomba all’interno della banca non è mai stata identificata.
La strage di Piazza Fontana è l’archetipo del tradimento dello Stato nei confronti dei cittadini, un tassello di un progetto di destabilizzazione più ampio, ma racconta anche la risposta forte e democratica alla strategia violenta e autoritaria degli apparati deviati e della loro complice manovalanza, l’estremismo neofascista. A Milano la mattina dei funerali delle vittime piazza Duomo e le strade adiacenti, gremite di cittadini, mostrano un’Italia che non si piega, non accetta la prospettiva antidemocratica e golpista e difende la Costituzione, i diritti e le libertà.
La Repubblica si dimostra più forte degli apparati deviati, dei politici imbelli e complici, dei militari felloni che hanno tradito la Costituzione su cui hanno giurato. La storia dell’Italia è disseminata di stragi, che hanno preannunciato e seguito quella di Piazza Fontana, rimaste per lo più impunite grazie alle complicità di cui hanno goduto i responsabili e ai depistaggi. Tuttavia quello che sappiamo, quanto accertato nel corso degli anni è frutto dell’impegno e del sacrificio di uomini e donne delle forze dell’ordine, della politica, di magistrati, giornalisti, esponenti della cultura, cittadini che hanno lottato per difendere la democrazia ed ottenere verità e giustizia.
Un pensiero doveroso va a Giuseppe Pinelli, ascritto a ragione tra le vittime di Piazza Fontana, un innocente detenuto illegalmente, dato che l’arresto non è mai stato autorizzato da nessun magistrato, vittima di pesantissime e infondate accuse e di una assurda e mai chiarita fine. L’inchiesta sulla sua morte è archiviata cinque mesi dopo dal Giudice Istruttore Amati come “suicidio accidentale”. Cosa è successo veramente nell’ufficio al quarto piano della Questura di Milano? Chi sono le persone presenti? Perché nella stanza dell’ospedale dove Pinelli è agonizzante possono entrare solo i poliziotti e ai familiari è consentito unicamente dopo la sua morte? La verità non è mai emersa. Sicuramente i funzionari di polizia hanno mentito.
Sono trascorsi cinquanta anni.
Il buco nel salone delle contrattazioni della Banca Nazionale dell’Agricoltura, i morti e i feriti non sono solo una pagina tragica della storia del nostro paese, ma ci interrogano e ci sollecitano a lottare per la verità e la giustizia, contro impunità e silenzi che hanno contrassegnato tante altre vicende dolorose in questi anni.
Abbiamo il dovere di ricordare, di coltivare la memoria perché non succeda più.
Un paese senza memoria non ha futuro.