Luminarie scintillanti, mercatini, decorazioni colorate, alberi addobbati ad ogni angolo, amabili melodie, suono di zampogne creano un’atmosfera incantata.
Dolci tradizionali e cibi raffinati campeggiano sulle tavole imbandite.
I cuori palpitano e gli occhi si inebriano di una bellezza ricercata.
I bambini fremono nell’attesa di aprire i regali, sperano di vedere esaudita l’ultima richiesta, l’ennesimo desiderio. La gioia disegnata sui loro volti gratifica chi dona, li aiuta a sentirsi a posto, a persuadersi d’aver assolto al proprio compito. I balocchi sostituiscono la presenza, i regali servono a dimostrare “quanto ti voglio bene” e sovente mascherano un’affettività claudicante, sghemba e distante.
Scambi di auguri, smancerie d’occasione, tante al chilo, sorrisi che nascondono una buona dose di ipocrita indifferenza e di fastidio. “Oggi è Natale, oggi è Natale, passati due giorni però te la faccio pagare….” cantava anni fa Mina.
La miriade di personaggi che popolano il presepe, immersi in un paesaggio bucolico immaginario, ciascuno indaffarato nella propria occupazione d’ogni giorno, raccontano una storia piacevole e rassicurante.
Abbiamo avvolto il Natale in una meravigliosa carta da regalo, l’abbiamo infiocchettato con nastrini colorati e luccicanti: è la festa della famiglia, dei buoni sentimenti e ci piace così perché non ci disturba, non ci pone interrogativi e non ci mette in discussione.
Il Natale, se preso nel suo senso autentico, racconta altro, possiede una ruvidezza che contrasta fortemente con questa rappresentazione patinata, esteriore ed effimera.
Il bambino Gesù, deposto nella mangiatoia all’interno della capanna, che ispira tanta tenerezza, uno spontaneo e insopprimibile moto d’affetto, viene al mondo in un periodo di censimento pianificato dai potenti, è uno tra i tanti nati in quell’anno, un numero. La sua storia è intessuta di marginalità e di rifiuto. Dio diventa uomo, nel suo amore senza limiti e misura si fa vicino all’umanità, ma è un indesiderato, come tanti ce ne sono nelle nostre città, lungo le nostre strade. Oggi ha il volto del barbone che dorme avvolto negli stracci sul marciapiede sotto casa, del disoccupato che ha perso il lavoro e la speranza del domani, del drogato che ci importuna chiedendoci uno spicciolo, del malato che si rigira solitario nel suo letto di sofferenza, del vicino di casa di cui nessuno si ricorda e che desidererebbe solo un gesto di tenerezza e d’affetto, dell’immigrato in cerca di un futuro migliore a cui sono riservati sguardi ostili e parole di disprezzo.
Maria è una donna vera, dolce e forte, tenera e determinata. La sua quotidianità sa di pane fatto in casa, di faccende domestiche, di lavoro, di attenzione a quanti soffrono, di servizio disinteressato. La sua maternità è frutto non di una imposizione ma di un consenso consapevole, espressione piena della sua soggettività femminile. Pensava di partorire suo figlio circondata dall’affetto dei familiari, di avere un minimo di tranquillità e comodità e non di darlo alla luce tra lo sterco degli animali, in una stalla, unico riparo per difendersi dal freddo e dove passare la notte. In lei riconosciamo le medesime sembianze delle nostre donne, la loro laboriosità senza fronzoli, il loro coraggio nell’affrontare disagi, difficoltà e prove, l’audacia di non mollare mai e di battersi a viso aperto contro violenze e discriminazioni, il loro donarsi incondizionato e senza riserve, ma anche il loro essere troppo spesso vittime di ingiustizie e prevaricazioni di ogni sorta.
Giuseppe, uomo giusto, cioè obbediente alla volontà di quel Dio in cui crede con tutto se stesso, silenzioso e coraggioso, concreto e libero, è capace di una generosità inaudita: consegna la propria vita ad un progetto che non gli appartiene, che anzi lo trascende e scopre così prospettive inaspettate, un senso più profondo del suo essere sposo e padre. Le porte chiuse, la catena ininterrotta di rifiuti alla richiesta di ospitalità per sé e la sua sposa che quella notte darà alla luce Gesù non lo abbattono, non lo scoraggiano e lo spingono a cercare una soluzione. Nel nostro tempo di padri evanescenti, incapaci di assumere responsabilità forti, Giuseppe ci racconta le tante figure paterne positive che prendono sul serio il proprio ruolo educativo, soffrono, lottano e versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, disoccupati e malati nel corpo e nello spirito.
I pastori, a quel tempo considerati all’ultimo gradino della scala sociale, e i poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti richiusi nei loro splendidi palazzi tramano nell’ombra per uccidere quel bambino appena venuto alla luce, ci fanno capire che il senso vero del Natale sta nel ripartire dagli ultimi, dai disprezzati, dai reietti, da quanti sono considerati inutili e spazzatura.
Il Natale vero non è mai anestetizzante, ma getta sempre lo scompiglio nella nostra sonnolenta tranquillità, ci spinge ad elevare lo sguardo oltre l’orizzonte del nostro egoismo, del nostro tornaconto e delle nostre colpevoli indifferenze, ci chiede di mettere fine al nostro complice silenzio dinanzi alle guerre, alle ingiuste, ai soprusi, allo sterminio di interi popoli, alle cattiverie piccole e grandi che si consumano lontano e vicino a noi, esige risposte concrete alle richieste di aiuto di quanti fuggono da carestie, guerre e persecuzioni e ci sollecita a lottare caparbiamente e senza sosta contro ogni forma di disumanità.