Daniele appartiene alla storia insieme al suo compagno di scalata Tom Ballard, congiunto in un abbraccio senza tempo a quella montagna che tanto ha amato e inseguito, che gli è entrata dentro come una dolcissima ossessione, gli ha rapito l’anima e lo ha voluto parte di sé definitivamente.
Saperlo lì, sospeso in cordata con Tom, lungo quello sperone di roccia e ghiaccio battuto da tormente, cullato da venti gelidi che soffocano il respiro e che ha sfidato con rispettoso timore, immerso nel profondo silenzio di una natura ostile scalfito solo dal frastuono cupo delle valanghe, dal crepitare dei seracchi, degli accumuli di neve gelida che inesorabili e incessanti precipitano verso il fondovalle, indomito nel tentativo, sottratto ad ogni contingenza temporale, di scalarlo e superarlo per raggiungere la tanto sospirata vetta, in una fusione piena di spirito e materia, umanità e natura che rappresenta il senso ultimo di tutte le sue straordinarie imprese, non allevia il dolore ma rende più sopportabile la sua assenza.
Passeggiando nel giardino della memoria, rigogliosi fioriscono i ricordi dei saluti fugaci accompagnati dalla convinzione di un sicuro rivedersi, delle frasi scambiate a volte così per caso, dei racconti delle imprese che amava condividere con contagioso ed esuberante entusiasmo, trasmesso prima che con le parole con i suoi occhi roventi di febbrile passione per le cime solenni delle montagne e magnificamente capace di avvincere ogni interlocutore.
Azzardo, incoscienza, ambizione di tentare una scalata estrema, calcolo ponderato di rischi e probabilità di riuscita per raggiungere un traguardo importante, una conquista senza precedenti e un punto di svolta per l’alpinismo….. Opinioni, convincimenti, parole, nulla più. Quanti hanno goduto della sua amicizia conoscono il sacro fuoco che gli ardeva dentro e che traluce dalle sue parole: “C’è un bisogno d’Assoluto che mi spinge a fare quello che faccio; c’è anzi la convinzione che un Assoluto esista, da qualche parte, magari solo un po’ più su di dove io riesco ad arrivare con le mie forze, al di sopra di nuvole e venti. Ma quel che sento, quando salgo per quelle pendici, non è tanto il Giudizio, ma l’Armonia, la libera Armonia con tutto ciò che mi circonda, e in fondo, con me stesso. Conquistare una montagna è anche, per me, conquistare quest’Armonia. Di più. Forse soltanto attraverso la montagna riesco ad arrivare all’Armonia con me stesso e con tutte le cose”. Ha voluto non accontentarsi della mediocrità e tentare l’impresa mai riuscita, probabilmente impossibile, una sfida per incontrare ed assaporare un pezzetto dell’agognato Assoluto, della desiderata Armonia.
Lo Sperone Mummery, “un dito di roccia e ghiaccio che punta diritto alla cima” del Nanga Parbat, in Himalaya, era il suo pensiero, il suo sogno, la sua ossessione, termine questo che associato alla sua passione per le ascensioni sulle grandi vette non possiede alcuna connotazione patologica, non palesa decurtazioni di lucidità e ragione, piuttosto racconta una spinta forte alla riflessione e alla ricerca. “Le vie più incredibili, le linee più eleganti nascono da due battaglie, una tecnica e una interiore, dentro le nostre parti più oscure. Ognuno di noi nasconde una paura atavica, inconfessabile, che ci teniamo stretti. Una paura con la quale ci confrontiamo e lottiamo costantemente ogni giorno. È un’amica? Ci salva la vita? Oppure ci annienta e ci blocca sempre di più?”. Parole inequivocabili le sue che testimoniano l’incessante lavorio su se stesso alla ricerca delle motivazioni ultime e delle energie indispensabili di cui fare scorta per scalare innanzitutto la montagna dell’interiorità, condizione preparatoria necessaria che rende possibile ogni impresa in qualunque campo.
“Un alpinista è un esploratore, non resiste a una via di cui si è innamorato, non può sottrarsi al desiderio di tentarla. Perché la visione iniziale è diventata un’idea, e l’idea un progetto a cui pensa tutti i giorni e a cui dedica le sue energie migliori”, ci ha lasciato scritto e questa sua convinzione rivela il senso pieno dell’impresa che ha tentato, cercando di percorrere “Una delle vie più eleganti che siano mai state immaginate”, armato di piccozza, di ramponi, di corda e di coraggio.
L’alpinismo, il non sport della montagna, nel quale non ci sono regole se non quelle etiche, che come spesso accade nei consessi umani vengono dimenticate, tralasciate e trasgredite, lo ha incarnato pienamente pur vivendolo per lo più in solitaria. Umile ragazzo nato a Sezze, una città del Lazio arroccata su una collina verdeggiante, primo contrafforte dei Monti Lepini, dominata alle spalle dal Semprevisa, scalatore autodidatta e primo alpinista nato sotto il Po ad aver conquistato l’Everest e il K2, ha faticato molto per essere capito ed accettato dagli alpinisti del nord, i quali lo chiamavano simpaticamente Romoletto, un modo anche per marcare una distanza. Si è dannato l’anima per dimostrare quanto valesse, per entrare nel gotha dell’alpinismo attraverso la porta principale ed essere riconosciuto come professionista. E ci è riuscito, a dispetto di tutti e tutto. La geografia non è affatto un destino ed anche un terrone può scalare le montagne.
A noi che condividiamo con lui la nascita e il vivere in questa terra bella e ruvida, sospesa tra le asperità delle colline che si inerpicano verso gli Appennini e gli spazi infiniti della pianura che si apre verso il mare, non meraviglia affatto la sua tenacia, la sua determinazione, il suo coraggio, il suo desiderio di affermazione e riscatto: è la caratteristica identificante e qualificante la sua gente. Sul Nanga Parbat ha portato una parte di noi, che resterà con lui e con Tom per sempre.