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La città che abito

Giu 28, 2020 Scritto da 
Foto Walter Salvatori

 

 

 

A sera, quando il trambusto disordinato e chiassoso delle auto inizia a scemare, senza tuttavia cessare di ghermire la mia città tra i suoi artigli di rovente acciaio cromato, amo immergermi nel suo cuore antico, tra le sue decarcie (quartieri) e le sue porte, nel dedalo di strade e vicoli, in dialetto strette, termine non soltanto indicante gli spazi ristretti tra le case, costruite con sapienza antica, abbracciate l’una all’altra in un equilibrio di forze e contrappesi e in uno sforzo di reciproco sostegno, ma soprattutto evocativo di relazioni trascendenti il materiale, di prossimità fisiche e di destini.

Strade e strette del centro storico fanno parte del mio passato e del mio presente, sono il luogo della mia fanciullezza e della mia maturità, sono memoria di amicizie sbocciate e divenute tanto forti da superare la prova erosiva ed inesorabile del tempo, di volti amati che la sorte matrigna, connaturata alla nostra irrimediabile precarietà, ha sottratto cinica e indifferente alla rete degli affetti, di giochi condivisi concretizzazione di stimolanti fantasie e creatività, di palloni da calcio rincorsi instancabilmente e implacabilmente squarciati da lame crudeli in scatti d’ira delle contrariate vittime dei nostri tiri, esplodenti ardori giovanili, e dei nostri lazzi scanzonati, di storie raccontate traboccanti dettagli affascinanti sempre mutevoli, esperienze vissute ma anche leggende credute per ingenuità, di tenerezze e sorrisi disegnati su volti stanchi e scavati da fatiche e dolori, di primi palpiti del cuore, rivelazione di quel sentimento imprevedibile e incontrollabile chiamato amore.

Ogni angolo, ogni slargo, ogni uscio, tanti ora tristemente condannati all’incuria, all’impietoso assalto di erbe infestanti e all’abbandono, ogni singola pietra trasudano storie intime e non solo, traguardi inseguiti e riscatti conseguiti, sconfitte rovinose e caparbietà nel rialzarsi. Non sono soltanto luoghi fisici, possiedono dimensione affettiva e richiedono di essere custoditi non con l’immobilismo stolto, la staticità fine a se stessa, la sublimata fissità incapace di cogliere che tutto muta anche restando apparentemente uguale,cambiando occhio e sentimento di chi osserva, ma attraverso l’apertura al nuovo che non cancella e deturpa, li rende territorio del vivere presente e armonico delle persone, non di egocentrica e solitaria affermazione personale.          

Sezze, la mia città, dolcemente adagiata sui primi contrafforti dei Monti Lepini da cui è possibile ammirare tramonti ardenti e l’infinito orizzonte che si tuffa nel mare, possiede luoghi di bellezza indomita che le ingiurie del tempo hanno segnato e le scriteriate insensibilità delle persone hanno sfregiato, grazie anche all’indifferente complicità di quanti avrebbero potuto e dovuto impedire simili affronti, senza nonostante tutto riuscire a cancellarla.

Gli occhi del cuore fanno scorgere l’oltre, penetrare le profondità, vedere quanto ai sensi sfugge. La bellezza non è solo percezione soggettiva, è realtà tangibile, è armoniosità di forme, è epifania di idee, razionalità, sentimenti, valori, abilità e talenti tradotti in spazi, luoghi, monumenti, opere, costruzioni umili e nobili. Tuttavia la bellezza per essere riconosciuta e ammirata richiede l’elevazione dello sguardo oltre le bassure, il non lasciarsi affogare nell’incalzante contingente, sempre uguale e anestetizzante, il ritagliarsi scampoli di tempo per nutrire l’anima.

Procedendo a passi lenti l’accorto viandante si imbatte nelle vestigia possenti delle mura poligonali, testimonianza di una città antica, secondo la leggenda fondata da Ercole, nelle piazze di elegante e rigorosa semplicità, nei palazzi dalle facciate lineari e raffinate, nelle fontane divenute simboli, nelle chiese solenni e riccamente decorate o dall’architettura austera come la cattedrale gotico-cistercense, eretta in pietra nuda, elemento essenziale di costruzione, decorazione ed esaltazione spirituale, nei monasteri e conventi, quasi tutti tristemente abbandonati, che raccontano una sedimentazione importante di ordini religiosi, custodi di cultura e spiritualità, nei musei scrigni preziosi di tradizioni ludiche, di cultura contadina, di reperti di una civiltà che parte dalla preistoria e giunge ai giorni nostri, di opere d’arte sacre e profane di rara bellezza, come quanto rimane, dopo il furto ignobile del 1976, del capolavoro più visionario di Orazio Borgianni, La vergine che consegna il Bambino a San Francesco. Grandi assenti sono un castello e l’ergersi contrapposto sulla stessa piazza dei simboli dei due poteri contendenti il dominio su cose e persone, temporale e religioso, il palazzo del governo e la cattedrale. Una singolarità certo non unica, che racconta una città refrattaria, eccetto per breve tempo, al dominio di signori e feudatari e libero comune in scarsa simpatia alla Camera Apostolica per amore di libertà e autodeterminazione. Tra le sue mura millenarie hanno avuto natali personaggi nobili ed illustri: i poeti latini Caio Titinio e Valerio Flacco, lo scultore del 1400 Paolo Taccone detto Paolo Romano, San Carlo grande mistico, il Cardinale Pietro Marcellino Corradini, giurista raffinato, due volte elevato al Soglio Pontificio e due volte escluso per il veto dei monarchi europei, il pittore Giuseppe Turchi e altri ancora di cui è impossibile redigere un esaustivo elenco.

Il tempo delle parole è tramontato, il litanico snocciolare auspici e promesse è come le foglie morte che il vento in autunno strappa dai rami degli alberi e disperde nell’ignoto e nell’irraggiungibile. Urgono l’audacia d’opporsi ad un declino per nulla inesorabile, atti d’amore che siano mani tese pronte a raccogliere l’invocazione muta di una città che chiede di risollevarsi, progettualità innovative libere da interessi di bottega e di piccolo cabotaggio, la disponibilità a scrivere insieme pagine di futuro.

Unirsi al coro dei professionisti dello scontento e della lamentazione è comodo, ma è esercizio inutile, sterile e dannoso. L’amore, anche quello per la propria città, non è perorazione di principio, ampollosità verbali e astrattezza, restare inerti in attesa dell’agire altrui, ma concretezza di atti e determinazioni, a partire da noi stessi, dall’apparente inutilità dei gesti quotidiani, gocce nel mare indispensabili per innescare cambiamenti duraturi.

Pubblicato in Riflessioni
Ultima modifica il Domenica, 28 Giugno 2020 06:57 Letto 1700 volte

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