Una sfilata di carretti tradizionali con ragazze e ragazzi in costume setino. Tanti stand pieni di carciofi confezionati nei mazzi tradizionali ed allestiti dalle cooperative agricole locali con composizioni ispirate alla cultura contadina locale. Lunghe file per degustare carciofi preparati secondo le ricette della tradizione e distribuiti gratuitamente. Un asse stradale seppure ampio, comodo e pratico, dai Cappuccini a Porta Pascibella o all’Anfiteatro, non riusciva a contenere l’afflusso dei visitatori. E’ iniziata così la Sagra del Carciofo di Sezze, continuando per oltre vent’anni. Poi è apparsa come decontestualizzata. Non andò bene un tentativo di farne un evento audace, moderno e futuribile, seppur lodevole perché, se non altro, si ispirava ad un’idea, ad un progetto, coinvolgente il centro storico. A metà degli anni novanta, non più una sagra come una parata. Anche se, bisognerà ammetterlo, quel modello aveva una bellezza ed un fascino fondati sulla semplicità, sulla linearità. Ma Sezze aveva tante altre cose da proporre; un cuore con difficoltà a pulsare. Un motivo di viuzze, lungo e caratteristico, che si snoda nel centro storico; che unisce e collega le decarcie (gli antichi rioni); le vie grandi e le piazze, rare nei paesi di collina; una cultura contadina, e non solo, fatta di oggetti, di attività, di sudore, di parlate e di storie, di poeti e scrittori; di gente orgogliosa e accogliente, contagiata da nuove cittadinanze. Sezze aveva un’anima, sconosciuta agli stessi abitanti, da scoprire e mostrare in un museo vivente, all’aperto, animato dai suoi stessi cittadini e dai visitatori fattisi, tutti insieme, attori e protagonisti. La rivoluzione avvenne per l’interpretazione e la regia del nuovo scenario assunte da cittadini singoli e associati, da comitati e vicinati spontanei ed improvvisati. Non vorrei fare un elenco delle fantasiose e straordinarie iniziative promosse da chi interpretò un’idea dandole un’anima, un’impronta unica, tipica, non riproducibile altrove. Ma qualche iniziativa va citata per aiutare il ricordo e la memoria. Si cominciò banalmente con nuove tavolate allestite nelle piazze nel giro di qualche ora. Si proseguì con l’assegnazione di aree e slarghi storici, non perimetrati come qualcuno vorrebbe a mò di parcheggio, ad associazioni che li gestivano in autonomia secondo un canovaccio concordato. Insieme si discutevano dettagli e reciproci impegni. Si generò una sorta di emulazione. Cominciò, senza una manifestazione di interesse, Pio IX, dando un input incredibile ed un segno indelebile; seguirono i vicinati, come quello di Vicolo della Tinta; singoli cittadini che mettevano in mostra antichi cimeli di famiglia gelosamente conservati, come abiti, arnesi ed utensili. Associazioni radicate fecero conoscere dal vivo l’arte casearia dei pastori. In una strada semidimenticata commercianti associati interpretarono, rivisitandola con originalità e con un tocco di modernità, una tradizione certo non spenta. Quella strada divenne centrale. Comitati ed associazioni in un sol attimo ricrearono a Porta Pascibella atmosfere paesane di una volta; macchine e moto d’epoca comparvero con garbo in contesti superbi da rispettare. Novelli butteri evocarono quel Fagiolino che batté Buffalo Bill. Per non parlare della cucina sezzese interpretata ed improvvisata nei ristoranti all’aperto, mentre banditori e cantori popolari si aggiravano tra la gente. Si potrebbe continuare descrivendo dettagli che hanno reso la Sagra di Sezze, la sagra per eccellenza, uno degli appuntamenti più importanti del Centro Italia. Mi piacerebbe far conoscere un sondaggio somministrato in una di questa nuova versione di sagra per spiegare il livello e la natura del gradimento. Quell’atmosfera creatasi ha contribuito alla nascita di altre associazioni dedite alla riscoperta e valorizzazione della cultura del luogo, dimostrando che le tradizioni sono patrimonio di una comunità e ad essa appartengono; senza di esse hanno un destino segnato.
Oggi invece un asettico avviso, nella pretesa di disciplinare un evento, le sottrae l’anima a fatica costruita; chiede freddamente e con distacco a chi della Sagra è l’artefice, ovvero le diverse associazioni, di manifestare un interesse a partecipare alla 51ma. Nessun incontro, nessuna consultazione, nessuna voglia di interloquire, e manco la volontà di ascoltare qualche voce. Tutto volge alla monetizzazione ed alla commercializzazione, anche della solidarietà e del calore umano. La creatività convogliata a cercare uno stallo, uno spazio pubblico da occupare. Solo il buon suonatore, che il giorno della sagra con il suo banjo suonava al pianterreno di casa, non ne avrebbe il bisogno. Anzi no! L’odierno assessore, lo avrebbe invitato a pagare il dazio per la diffusione in strada della sua musica. Son certo però che lui, il suonatore, come nella favola famosa, avrebbe pagato con il suono della moneta. Nonostante il quadro, però, sono fiducioso che prima o poi qualcuno chiamerà il malcapitato assessore a rispondere del manifesto disinteresse per la cultura e la storia di una città perché ha pensato che una sagra come la nostra possa esser lo stesso bella senz’anima.