Lara Lugli, classe 1980, vive a Carpi e ha militato nelle categorie dilettantistiche della pallavolo. Schiacciatrice, senza la longevità di Francesca Piccinini o il talento di Paola Egonu, autentiche stelle del campionato italiano, è stata protagonista, suo malgrado, di una storia emblematica che merita di essere raccontata. Due anni fa giocava con l’ASD Volley Pordenone. Il contratto, concluso qualche anno prima, le riconosceva un valore anche retributivo conforme alla sua importanza di atleta di un campionato di serie B1. Nel marzo 2019, a 38 anni, rimane incinta e lo comunica immediatamente alla società. Le clausole sottoscritte prevedevano in questo caso la rescissione del contratto. Si tratta di una regola da tutti conosciuta e accettata nel settore dello sport femminile, sia cioè dalle società che dalle atlete. Dopo un mese Lara Lugli perde il bambino per un aborto spontaneo. L’ex pallavolista chiede ripetutamente e giustamente alla società di versarle l’ultimo stipendio dovutole e relativo al mese di febbraio 2019. Di fronte al ripetuto rifiuto dell’ASD Volley Pordenone, decide di rivolgersi, tramite il proprio avvocato, all’Autorità Giudiziaria ed ottiene un Decreto Ingiuntivo. La società sportiva propone opposizione al decreto ingiuntivo ed avanza domanda di risarcimento nei confronti dell’atleta per non aver onorato il contratto sottoscritto. L’atto di citazione in opposizione contiene affermazioni inverosimili e decisamente sgradevoli. Innanzitutto viene contestato l’ammontare dell’ingaggio, giudicato troppo elevato rispetto alle sue qualità tecniche. Orbene ammesso e non concesso che il procuratore di Lara Lugli avesse costretto con la forza i vertici societari a stipulare il contratto e ad accordarle condizioni economiche così favorevoli, è difficile comprendere come questo si concili poi con l’affermazione che in seguito e in conseguenza della rescissione del rapporto contrattuale la posizione in classifica della squadra sia precipitata e gli sponsor non abbiano più onorato i loro impegni. Delle due una, evidentemente. Tuttavia l’accusa decisamente più scandalosa è che alla stipula del contratto, avendo ormai 38 anni (una vecchia signora quindi!) Lara Lugli avrebbe taciuto l’intenzione di avere un figlio e comunque non avrebbe informato la società di questo suo eventuale desiderio. Una donna a 38 anni o dopo una certa età, stabilita invero non si sa bene da chi e secondo quale criterio, dovrebbe abbandonare il desiderio di diventare madre. Inoltre la maternità sembra essere un problema, un intralcio, una inutile velleità e non un diritto intangibile di ogni donna.
Ad ogni buon conto qualche settimana fa l’ASD Volley Pordenone ha rinunciato alla domanda giudiziale avanzata ed ha ottemperato a tutti gli obblighi nei confronti di Lara Lugli, la quale ha così commentato l’epilogo della vicenda: “È una grande vittoria per tutti ed era molto importante che questa causa non entrasse nemmeno in un tribunale a dimostrazione della sua infondatezza. È un forte segnale per tutte le donne non solo atlete che si trovano a dover affrontare queste situazioni assurde”.
Quanto accaduto a Lara Lugli consente di alzare il velo su un sistema palesemente discriminatorio verso le donne, che va oltre il ristretto ambito sportivo. Il diritto alla maternità della donna che lavora, previsto nel nostro ordinamento e solennemente sancito nella Costituzione, nella prassi dei rapporti di lavoro viene di fatto aggirato e disatteso. Frequentemente capita di leggere di aziende che non assumono giovani donne proprio per evitare il “pericolo” di una gravidanza, di scritture private fatte sottoscrivere alle neoassunte con cui si impegnano a non restare incinta, di lettere di dimissioni dal posto di lavoro sottoscritte in bianco per consentire all’imprenditore di sbarazzarsi facilmente e senza problemi della dipendente. Prassi queste talmente diffuse da rappresentare una sistematica violazione e disapplicazione della legge. La maternità non è così una libera scelta, un diritto della persona, ma un ostacolo al perseguimento degli interessi del datore di lavoro.
Il mondo dello sport rappresenta per di più una terra di nessuno, in cui le donne sono escluse dal professionismo e nei loro riguardi non si applicano le relative tutele contrattuali. In pratica le atlete sono considerate lavoratrici dipendenti e viene loro impedito di svolgere altri lavori, ma al contempo sono inquadrate come libere professioniste con una completa assenza di tutele. La sottoscrizione delle clausole di maternità porta così, in caso di gravidanza, alla sistematica rescissione dei contratti o a non pagare gli stipendi per mesi. Se ricorrono alla magistratura, rivendicando le stesse tutele previste dalla legge per le altre lavoratrici, pur avendo sottoscritto condizioni manifestamente discriminatorie, queste sono considerate valide ed efficaci e la gravidanza una giusta causa per la rescissione del contratto. L’iniquità è talmente interiorizzata che il contratto si ritiene disciplinabile con clausole palesemente nulle e addirittura le stesse sono coercibili in giudizio. In punto di diritto un contratto può essere risolto in presenza di un’inadempienza grave, ma sostenere che una giusta causa di risoluzione possa essere la gravidanza è aberrante e intollerabile. Tali norme sono incostituzionali ed è inaccettabile che vi siano rapporti di lavoro disciplinati secondo regole contrattuali che prescindono dall’indispensabile rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento.
La vicenda di Lara Lugli rappresenta un’occasione importante per riflettere su una realtà impantanata in retaggi culturali obsoleti, lontana dal rispetto della parità di genere ed è urgente pensare ad una riforma normativa radicale: è assurdo che una donna sia costretta ancora oggi a scegliere tra lavoro e figli, a rinunciare alla maternità per non perdere il lavoro. La rinascita del nostro paese, la modernizzazione delle nostre strutture sociali e produttive devono essere accompagnate da una nuova stagione dei diritti e delle opportunità uguali per tutti, in ogni ambito e senza distinzioni di genere.