Il proliferare di liste civiche ad ogni tornata elettorale è fenomeno così ricorrente da essere ritenuto ormai normalità. Il genio e l’inventiva si cimentano con gran successo nell’escogitare nomi e simboli accattivanti, che rasentano a volte la bizzarria. Spesso portano il nome del capo politico o del candidato del momento, si propongono come suoi paladini e fedeli interpreti. Insomma sono espressione massima del leaderismo esasperato imperante in politica, un affidamento alla persona senza intermediazioni, ma soprattutto sono moltiplicatori di candidature per raggranellare consensi: più liste, più candidati, più probabilità di avere successo.
Personalmente non sono contrario alle liste civiche, anche perché sono convinto che non tutte le esperienze sono uguali, ma ne contesto il ricorso strumentale, l’averne cancellato la funzione partecipativa e democratica, riducendole ad espedienti per favorire gli interessi dei trasformisti, di politici usi a non rispondere a nessuno, se non a loro stessi, dei compiti di rappresentanza ricoperti e a ricorrere a pressioni e condizionamenti.
Le liste civiche nascono come luoghi di condivisione di idee e progetti da realizzarsi nelle comunità locali, proponendosi elettoralmente fuori dalle rigide appartenenze ai partiti, che si caratterizzano o meglio dovrebbero caratterizzarsi per avere strutture territoriali e organismi rappresentativi legittimati democraticamente mediante il voto di iscritti e militanti. Raccogliere e organizzare la spinta dal basso, la disponibilità all’impegno in favore della comunità e l’aspirazione a mettersi al servizio del bene comune è una scelta politicamente alta, segno di maturità democratica, significa allargare il campo della partecipazione a quanti vogliono dare un contributo concreto ma sono restii a farlo attraverso un partito.
Nel nostro paese ci sono state esperienze in cui erano gli stessi partiti a fare un passo indietro e a promuovere una partecipazione più ampia mediante liste civiche aperte e plurali, capaci di raccogliere le energie migliori di città e territori, di proiettarle in ambito amministrativo e farne un volano per il buon governo. Basti pensare a Bologna, amministrata per decenni da sindaci e maggioranze del PCI, eletti nella lista civica delle due torri. Nessuno ha mai dubitato che Dozza o Zangheri fossero espressione della sinistra comunista, ma la loro base di consensi andava al di là del proprio partito di riferimento.
Un altro aspetto assai rilevante è che civismo e liste civiche non possono significare indifferentismo valoriale ed ideale, assenza di connotazione politica, cosa ben diversa dall’appartenenza partitica. Simili considerazioni non sono effetto di nostalgie personali e logiche tramontate, un guardare indietro senza tener conto degli sviluppi sociali e culturali, del tramonto delle ideologie (o presunto tale). Destra e sinistra non sono categorie superate, superflue e insignificanti: non vi è scelta politica ordinaria o straordinaria che non sia influenzata dall’appartenenza ideale. Il pragmatismo elevato a regola assoluta, sostenere che esistono soltanto soluzioni ai problemi valide e ragionevoli ma asettiche rispetto ai convincimenti politici è un grande inganno. Giusto e sbagliato sono parametri di valutazione fondati su valori e convincimenti, individuare priorità e operare scelte non è affatto attività neutra, in quanto originano dal modo in cui vengono interpretati gli avvenimenti, partendo e fondandosi sulle sensibilità umane e culturali di quanti le compiono.
Fino a quando la politica è stata forte per spinta ideale e capacità di coinvolgimento, anche il civismo ha mantenuto la propria connotazione e funzione. Ora che i partiti non sono più legati a ideologie, a sistemi valoriali né sono più organizzazioni di massa ma comitati elettorali con scarso radicamento sul territorio, dall’elettorato volatile e legato alle fortune e alle repentine cadute dei loro capi, si producono gli effetti anche sulle liste civiche. Il ricorso a questo strumento, il cui motore propulsore non è il patrimonio di impegno di molte forme di volontariato che con il loro lavoro sopperiscono alle carenze delle istituzioni ma il calcolo numerico dei voti, dimostra la debolezza dei partiti, la loro incapacità di catalizzare consensi su valori e programmi. I partiti si attivano per lo più in vista dei passaggi elettorali e, sebbene alcuni mantengano organismi, sia pur ridotti all’essenziale, di rappresentanza interna, sono lontani dall’essere luoghi dove militanti e simpatizzanti contano veramente, la loro democraticità è una perorazione di principio e la partecipazione decisionale un simulacro. Le preferenze personali sono premessa di ogni ragionamento, punti di forza per rivendicare spicchi di potere, prescindendo dalla bontà e ragionevolezza di quanto si sostiene e dalle competenze. I voti sono considerati proprietà personale, quando invece il consenso viene affidato agli eletti dagli elettori, i quali ne restano esclusivi titolari e detentori.
Dinanzi ad un così alto esempio, le liste civiche finiscono per riproporre in modo esponenziale i difetti dei partiti: prontamente spariscono come gruppi organizzati il giorno dopo le elezioni e gli eletti diventano autoreferenziali, cani sciolti pronti a schierarsi e a sostenere le posizioni più disparate e contraddittorie per pura convenienza personale.
Abbiamo un disperato bisogno di partiti capaci di perseguire gli interessi generali del paese, della propria regione e del proprio comune, di andare oltre il legittimo essere di parte.
Abbiamo bisogno di liste civiche che siano luoghi di un impegno autentico per la comunità, che riacquistino valore, ruolo e funzione purtroppo perduti negli ultimi anni.
Abbiamo bisogno della bella politica, che pensi al bene comune, ispirandosi ai principi della Costituzione, e riavvicini i cittadini alle istituzioni affinché possano concorrere a determinare i destini della collettività.