Mosca non sfonda dopo settimane di sangue ed orrore e Kiev resiste, più di quanto noi e Putin potessimo immaginare.
La grande armata russa è impantanata nel fango ucraino.
Il racconto di violenze, bombardamenti indiscriminati di città e villaggi e massacri di civili inermi riempiono i notiziari televisivi, le trasmissioni di approfondimento e le pagine dei giornali. È la crudeltà della guerra che si ripropone sempre uguale a se stessa in ogni tempo e ad ogni latitudine.
Esperti di geopolitica, analisti internazionali e autorevoli politici e giornalisti si vanno da giorni interrogando sulle ragioni che hanno scatenato il conflitto, sugli errori commessi dalle superpotenze e dai loro alleati ed ognuno propone la propria ragionevole spiegazione, prospetta possibili evoluzioni e auspica vie di uscita. Alcuni invocano apertamente la resa dell’Ucraina nella convinzione che tale scelta eviterebbe altri morti, sangue e sofferenze. Tra i fautori della resa ci sono tanti nostalgici del ‘900, quanti temono che il proprio stile di vita possa essere messo in discussione dalla crisi economica, che le proprie comodità subiscano un significativo ridimensionamento e addirittura possano essere stravolte a causa di una guerra che si combatte ai confini dell’Europa e infine quanti, non a torto, hanno paura di una possibile escalation e di un conflitto atomico che segnerebbe la fine dell’umanità.
In ognuno di noi a ben vedere sono affiorati in questi giorni simili pensieri, si sono fatti strada pudicamente, magari li abbiamo appena sussurrati in qualche discussione. Il ragionamento è semplice: più gli ucraini combattono e più dura la guerra. Siccome alla fine vincerà Putin, prima vince e prima ci sarà la pace. In fondo per il bene degli ucraini, non aiutarli a resistere, né con le sanzioni né con l’invio di armi è la via di uscita più facile, il modo più rapido e semplice per ritornare alla tanto agognata tranquillità e normalità, ovviamente ed esclusivamente la nostra.
Le nazioni libere e democratiche dovrebbero semplicemente separare i propri destini da quelli di un popolo aggredito brutalmente, evitando di prendere posizione o comunque far finta di non sentire, ovviamente per il loro bene, gli ucraini che invocano il nostro aiuto e al contempo evitare di fare arrabbiare Putin.
Tuttavia una resa incondizionata dell’Ucraina sarebbe una sconfitta dei valori su cui si fondano i sistemi democratici occidentali. Gli ucraini combattono una guerra territoriale, di difesa, ma invero stanno combattendo per la loro libertà, perché sanno bene cosa vuol dire vivere in un regime totalitario come quello russo, nel quale Putin detiene un potere assoluto da oltre vent’anni e nel quale gli oppositori, politici e giornalisti, sono sistematicamente imprigionati e assassinati. Quanti chiedono la resa di fatto vogliono sacrificare sull’altare della propria convenienza la libertà e il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina, un Paese in cui i cittadini hanno eletto i propri rappresentanti al Parlamento e il Presidente, lasciandola sola di fronte all’invasione di una potenza governata da un regime autocratico, che rappresenta la negazione di quegli stessi valori.
Nel 2014 i paesi democratici non hanno reagito all’annessione della Crimea e alla guerra per procura nel Donbas con un pacchetto di sanzioni come quelle varate oggi. Tuttavia già otto anni fa era chiara quale sarebbe stata l’evoluzione della situazione e la posta in gioco non poteva essere che un peggioramento drammatico dello scenario, una sempre più forte compressione dei legittimi diritti e delle aspirazioni di un popolo, che oggi è oggetto di un’invasione da parte della Russia, mascherata come un’operazione militare per “neutralizzare” e “de-nazificare” l’Ucraina. Oggi, mentre il futuro del popolo ucraino rimane drammaticamente incerto, alle democrazie occidentali si sta ripresentando lo stesso problema di otto anni fa: dove potrebbe arrivare Putin in futuro?
La comunità internazionale deve farsi carico di ricercare la pace, di comporre il conflitto in atto facendo tacere le armi e prevalere le ragioni del diritto e della giustizia. Occorre però non perdere di vista un concetto fondamentale per evitare fraintendimenti: la distinzione tra chi aggredisce e chi è aggredito non è un dettaglio irrilevante.
Personalmente ritengo moralmente aberrante, oltre che politicamente inaccettabile, la strada di chi afferma che per perseguire la pace occorre essere neutrali, non stare né con Putin né con la NATO. L’operato delle democrazie occidentali e della NATO è stato tutt’altro che giusto, eticamente e politicamente ineccepibile. Errori strategici ne sono stati commessi, taluni di gravità imperdonabile, frutto di una visione miope, funzionale alla esaltazione della potenza politica ed economica dei singoli paesi e al sistema di alleanze internazionali che li legano, che hanno determinato l’insorgere del conflitto in corso. Criticare e condannare non solo è giusto e legittimo, ma anzi doveroso. Fermarsi a riflettere sulle responsabilità e le cause della guerra è utile per farci comprendere il vicolo cieco in cui ci siamo cacciati e il baratro in cui rischiamo di precipitare. Tuttavia in questo momento la priorità è lo stop alla guerra, trovare una pacificazione, far incontrare i belligeranti con l’aiuto e la mediazione delle grandi potenze, comporre le diverse posizioni in maniera alta senza umiliare le parti in conflitto. I leader internazionali devono mostrarsi all’altezza della sfida e mettere in campo una strategia per il futuro. In un mondo globale e interconnesso, non si può pensare che la globalizzazione vada d’accordo con la guerra e le sanzioni. Bisogna superare la logica della contrapposizione e della forza. Il tema della sicurezza vale per gli Usa, l’Europa, la Russia, la Cina e tutte le altre nazioni e pertanto occorre ripensare radicalmente il sistema delle alleanze politiche e militari. Sarebbe meglio un esercito europeo invece della NATO come alleanza militare, che si è comunque spinta verso est e ha causato uno sfasamento pericoloso degli equilibri geopolitici.
Serve coraggio e determinazione per bandire definitivamente la guerra dalla storia, come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e costruire un mondo in cui a dominare siano i diritti e la libertà di tutti i popoli senza distinzioni e prevaricazioni da parte delle nazioni più forti.