Squillano le trombe, rullano i tamburi. L'annuncio è di quelli che cambieranno la storia, le magnifiche sorti e progressive dell'Italia. Il nostro Paese si schiuderà al fulgido avvenire della terza repubblica e vi entrerà a passo di carica grazie all'approvazione dell'elezione diretta del capo del governo, il cosiddetto premierato .
Ormai da qualche decennio il grande sogno della politica italiana, senza separazione di colore e schieramento, è di riformare la Costituzione. Il dramma è che le parole hanno perso peso, funzione e significato. Riformare è termine bellissimo, ma è venuto assumendo una connotazione negativa, fa spesso rima con il peggioramento dell'esistente, con un sostanziale arretramento nel campo dei diritti e delle libertà.
Gli ultimi tentativi di cambiare radicalmente la Carta Costituzionale sono per fortuna falliti, dal momento che rappresentavano una vera e propria manomissione del suo impianto democratico e sociale, avevano il carattere della scappatoia funzionale a mascherare lo scarso spessore culturale, la limitata tensione verso il bene comune , l'incapacità di proporre una progettualità seria e di ampio respiro della classe politica e non costituivano certamente, come propagandato, dei passaggi indispensabili per favorire il progresso dell'Italia e la modernizzazione delle istituzioni.
Lo sgangherato premiato, tirato fuori dal cilindro dal governo Meloni, è un unicum nella storia costituzionale delle moderne democrazie liberali, è un ircocervo favoloso e una chimerica assurdità. La proposta, sbandierata con solennità dal governo e dal sodalizio degli incensatori di professione, consiste in un progetto di legge costituzionale composto da cinque articoli: un testo scarno per forma e contenuti, dirompente per gli equilibri democratici e disarticolanti il complesso sistema di pesi e contrappesi introdotti dai costituenti, indispensabili per garantire una democrazia vera, sostanziale e non solo formalistica. Nel testo sono più le cose che mancano e trionfano approssimazione e mera propaganda.
L'altisonanza del proclama di voler ripristinare finalmente ruolo e centralità ai cittadini, lo scettro del potere decisorio, delegando loro la facoltà di scegliere il Presidente del Consiglio è il trionfo della più becera ipocrisia, la copertura farlocca e ridicola dello svuotamento della democrazia, che va avanti da tempo con la complicità se non di tutta la politica quantomeno di buona parte, la formalizzazione normativa di una metamorfosi dei luoghi della rappresentanza, ridotta gradualmente a vuoti comparse, la contrazione pericolosa dell'esercizio della sovranità popolare a facoltà di delegare il potere di decidere le sorti di tutti e di ciascuno ad uno soltanto. E che le cose stanno così è confermato dalla più volte esplicitata convinzione di tanti attori della politica, i quali dovranno il confronto e le discussioni nelle aule parlamentari come la celebrazione di una liturgia di altri tempi, ormai del tutto desueta ed inutile, un mero intralcio al decisionismo efficientista. Quando una legge di bilancio, il più importante atto politico di un governo e della sua maggioranza si può discutere giusto un po' in una sola delle Camere e senza presentare emendamenti, mentre nell'altra si preannuncia preventivamente che verrà posta la fiducia, anche in assenza di particolari emergenze politiche e temporali, è di palese evidenza che il Parlamento è ridotto a scenografia e non lo si può certo considerare un ostacolo.
Il premierato è da tempo praticato in Italia e costituisce una violazione formale e sostanziale della Costituzione. È evidente a tutti, anche agli osservatori più disincantati o superficiali, che non sono certo la nostra carta fondamentale, le leggi oi regolamenti, tantomeno la divisione dei poteri tra gli organi costituzionali ad essere di ostacolare ad un'azione spedita del governo in tutti quegli ambiti in cui si registrano indecisionismo, ritardi e inettitudine nel rispondere alle emergenze, dall'immigrazione fuori controllo all' gonfiaggio galoppante, passando per le difficoltà sul PNRR e sulla sua messa a terra , quanto piuttosto la mancanza di idee e di coraggio di una politica che preferisce galleggiare tra soluzioni tampone e il voltarsi dall'altra parte, evitando accuratamente di assumersi le responsabilità delle scelte e delle soluzioni possibili.
Anomalo è il modo poi in cui è stato impostato l'iter della riforma. L'iniziativa parte dal governo, non dal Parlamento, e prescindendo dall'indispensabile confronto con le opposizioni, come dovrebbe invece essere in un percorso costituente fatto di ascolto, condivisione, ricerca di consenso ampio, trattandosi di regole comuni. Alla base c'è l'incultura politica della maggioranza, ma anche il riemergere di altro, l'affermazione di una certa idea plebiscitaria che si riflette nel metodo e nel merito.
La riforma non ha un'architettura coerente, i proponenti sono interessati al dato simbolico e poco importante se la conseguenza sarà una torsione in senso leaderista della democrazia parlamentare. La mancata previsione dell'indispensabile armonizzazione tra le norme costituzionali crea un sistema bicefalo, una condizione di conflitto istituzionale permanente tra la legittimità formale e sostanziale, tra Presidente del Consiglio il quale, essendo eletto dai cittadini, possiede una forte legittimazione politica, e Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento, con legittimazione minore ma forti poteri di intervento. Il rischio è di mettere in serio pericolo l'equilibrio dei poteri che, seppur tra mille difficoltà, ha retto finora la Repubblica, evitando avventurismi e derivate autoritarie. In ogni caso a farne le spese sarà il Parlamento, che ne uscirà ulteriormente indebolito, delegittimato e limitato nella sua capacità di rappresentanza. Il fatto che non sia prevista una soglia minima di voti da raggiungere per la coalizione che sostiene il candidato per far scattare il premio di maggioranza, lede i principi fondamentali della Costituzione e fa si che una esigua minoranza possa ottenere una maggioranza amplissima in Parlamento. Un assurdo!
Infine sotto un profilo contingente la riforma nasce dall'esigenza politica di costruire una via di uscita e una narrazione giustificazionistica dello stallo economico e sociale in cui l'Italia versa. In perfetto stile populista, da qui alle elezioni Europee, mancando i soldi da distribuire ei risultati da vendere, Giorgia Meloni, il governo e la maggioranza faranno ricorso al vittimismo classico, si sceglieranno il nemico da combattere e superare, il terreno plebiscitario della contesa, accuseranno lacci e lacciuoli che impediscono loro di governare e tenere fede agli impegni assunti in campagna elettorale.
Una perfetta arma di distrazione di massa e un vulnus pericoloso questa proposta di riforma costituzionale.