L’8 marzo non è la festa della donna, ma la giornata internazionale dei diritti della donna. La differenza non è nominalistica ma sostanziale.
Lasciamo le mimose sugli alberi, anche perché in casa dopo un po’ fanno cattivo odore, e smettiamo di ridurre la questione femminile ad un’occasione festaiola.
Troppo spesso il gesto di un fiore regalato o ricevuto, segno semplice di un rispetto non scontato, rischia di farci perdere di vista l’urgenza di un impegno non estemporaneo e occasionale per il raggiungimento di una reale parità di genere.
La condizione di disuguaglianza in cui vivono milioni di donne, anche nei nostri paesi occidentali, costrette a rivendicare con la vita la loro stessa dignità, il rispetto mai conosciuto e il diritto ad essere se stesse è inaccettabile.
Nonostante il progresso sociale e culturale, violenze e soprusi sono ancora e sempre l’arma più frequente dell’incessante negazione della parità.
Molti sono i passi avanti, le libertà e i diritti conquistati, ma sarebbe un errore abbassare la guardia e darli per scontati, tanto più che ciclicamente vengono rimessi in discussione e limitati subdolamente.
Troppe le donne sono costrette a scegliere tra lavoro e famiglia, magari vincolando la propria assunzione a concrete garanzie di non rimanere incinte, a rinunciare preventivamente ai figli per inseguire il sogno della realizzazione personale, anche ricorrendo all’aborto in assenza di opzioni alternative.
Peraltro non è affatto trascurabile che si dia sempre per scontato che nelle famiglie a dover rinunciare alla propria carriera debbano essere necessariamente ed esclusivamente le donne.
Il processo di emancipazione fin qui perseguito non ha impedito di mantenere la donna, pur con le dovute proporzioni rispetto al passato, in posizione di sudditanza economica, sociale e culturale.
Le cronache quotidiane traboccano di delitti perpetrati contro le donne da mariti, compagni e fidanzati e non c’è differenza di età e condizioni sociali. Un fenomeno ormai endemico, che dovrebbe indurci a interrogarci su un qualcosa che sembra tracimare oltre il semplice dato criminale e spingerci ad una profonda analisi sociale e antropologica. L’omicidio è spesso l’ultimo atto di una lunga serie di violenze di ex-partner, mariti o spasimanti che non accettano la fine della relazione o un rifiuto.
L’incapacità e la paura di molte donne di reagire di fronte ad angherie, soprusi e violenze compiute ai loro danni sono conseguenza anche della scarsa autonomia economica, oltre che un retaggio culturale retrogrado dal quale non siamo ancora riusciti a staccarci definitivamente.
Ridurre l’8 marzo a una banale festa, magari accompagnata da cene e spogliarelli di giovani uomini, è oltraggioso e irrispettoso per le donne partigiane che hanno sacrificato, se non la vita, gran parte della giovinezza per garantirci diritti e libertà, per le donne dell’Assemblea Costituente che ci hanno donato la Costituzione, per le donne costrette a prostituirsi, picchiate e segregate, per le bambine date in sposa a uomini senza scrupoli, per le ragazze costrette a matrimoni combinati e spesso assassinate in caso di rifiuto, per le donne che vivono sotto regimi dittatoriali cui sono negati i diritti fondamentali, per le donne dei paesi in guerra che cercano con tutte le proprie forze di sopravvivere e sacrificano la propria vita pur di proteggere i figli, per le donne che fuggono da guerre, fame, sete, malattie, soprusi e miserie e affrontano viaggi per terra e per mare in condizioni disperate e indegne nel tentativo di offrire ai figli un futuro migliore.
Occorre un cambio di passo.
Continuare a parlare pervicacemente e vergognosamente di questione femminile, da una parte secondo una logica meramente rivendicazionista e dall’altra con una impostazione che sottende l’idea delle donne come un gruppo sociale svantaggiato o un “genere” da uguagliare e tutelare sulla base dell’ordine creato dal sesso dominante, finisce per fare da velo alla perpetuazione dei rapporti di potere consolidati, a forme di dominio che la storia ha conosciuto nella nostra come nelle altre civiltà e a non perseguire l’obiettivo di costruire, partendo dalla singolarità delle vite e delle esperienze personali, una diversa idea delle relazioni tra donne e uomini.