L'astensionismo elettorale è un fenomeno in crescita in tutte le democrazie.
Nel nostro Paese ha una lunga storia e negli anni ha cambiato fisionomia e caratteristiche. Iniziato come fenomeno fisiologico, gradualmente si è accentuato a causa dell'indebolimento della presa ideologica dei grandi partiti di massa e, con la nascita della seconda repubblica, si è trasformato in una patologica disaffezione civica, alimentata dal disimpegno, dalla delusione, dal distanziamento e dalla protesta verso i partiti e l'intera classe dirigente.
Ma l'astensionismo rappresenta davvero un problema per la politica?
L'impressione è che al di là degli immancabili commenti “rattristati”, dell'amara constatazione del fenomeno, archiviata l'analisi del voto che li riguarda, i politici sono interessati soltanto a quanti vanno a votare: sono loro che determinano vittorie e sconfitte , seggi conquistati e maggioranze di governo. Pertanto ad essi si rivolgono, dato che da essi dipendono e non si pongono il problema di comprendere le ragioni degli astenuti né di rappresentarli.
In Italia la deideologizzazione della politica e la fine dei grandi partiti hanno ridotto il peso dell'appartenenza identitaria e il voto è visto sempre meno come dovere e sempre più come diritto, esercitabile liberamente, ivi compresa la possibilità del suo non esercizio. Tale scelta, a lungo intesa non come contestazione ma come forma di fiducia verso il sistema, per cui l'astenuto delegava a scegliere al posto proprio chi votava, ha smesso di essere considerata in tal modo quando l'astensione ha assunto proporzioni patologiche ed ha rivelato la crisi della democrazia.
La delusione, effetto della fine delle vecchie identità politiche, il non riconoscersi più in nessuna proposta, il declino della partecipazione per la chiusura autoreferenziale della classe politica e il suo essere relegato al solo momento elettorale, la disaffezione verso le istituzioni, percepite come incapaci di dare risposte adeguate e tempestive ai problemi dei cittadini stanno mettendo in discussione la tenuta del sistema democratico.
L’uscita dal circuito della rappresentanza di parti crescenti di elettorato determina l’uscita dei suoi bisogni dalla sfera politica e ne impoverisce le proposte, vengono meno importanti temi sociali e la sfera dei diritti e delle libertà si restringe.
La politica dovrebbe interrogarsi sulle strade da percorrere per arrestare l’astensionismo patologico, ma soprattutto per invertire la tendenza e stimolare la re-inclusione dei cittadini nelle strutture partecipative dello stato democratico.
Certamente una democrazia meno partecipata è più comoda e agevole per chi esercita il potere, poiché riduce il lavoro e la competizione. È più facile spartirsi una fetta definita che stimolare una partecipazione più ampia dagli esiti ignoti e imprevedibili. Inoltre meno sono le persone che partecipano, meno sono i potenziali candidati a ricoprire le cariche. L’astensionismo dunque fa comodo, almeno fino a quando la massa nascosta non riemerge e non produce cambiamenti radicali.
È urgente affrontare le cause dell’astensionismo, restituendo il senso alla politica, intesa come impegno a favore dei cittadini e per la costruzione di una società più avanzata e giusta.
L’idea dello Stato minimo, sostenuta dagli ultraliberali, che hanno portato all’estremo l’idea lockiana della politica come male necessario, affermatasi non solo in rapporto al primato dell’economia di mercato, ha finito per minare il senso dell’appartenenza alla comunità dei cittadini, sia di quanti stanno bene e possono provvedere da soli ai propri interessi, sia di quanti della politica hanno bisogno in termini di sostegno pubblico. Per sopravvivere, riscattarsi e trovare aiuto molti si affidano alle reti di solidarietà, ai rapporti personali, a nuove forme comunitarie e non allo stato. Insomma c’è una politica non-politica che nasce e cresce fuori dai canali istituzionali e dà risposte più efficaci alle domande e ai bisogni quotidiani.
La politica dovrebbe tornare a dare risposte ai valori prioritari delle persone, a riacquistare il primato rispetto all’economia, alla scienza, alla tecnica, ma questo può avvenire solo se sarà capace di mettere in discussione se stessa e liberarsi da incrostazioni e velleitarismi.
In una società postmoderna, pluralista, multiculturale è sempre più difficile sentirsi rappresentati da un unico gruppo, partito o movimento. I programmi elettorali, spesso generici e superficiali, difficilmente sono integralmente condivisi e questo provoca un’alta volatilità elettorale e anche l’astensione perché, non identificandoci in nessun progetto e valutando inutile il voto, tanti cittadini decidono di passare la mano.
In questo modo viene erosa la base della democrazia.
Al di là degli schieramenti, servirebbe un dibattito aperto e senza pregiudizi, ricercare nuovi strumenti di partecipazione, avanzare proposte alternative a quelle semplicistiche di ulteriore riduzione della rappresentanza facendo ricorso a modelli monocratici come il presidenzialismo, prendere sul serio l'essenzialità del pluralismo delle idee e offrire la possibilità di promuovere e approvare proposte concrete senza tenere oltremisura in conto la loro provenienza da partiti e schieramenti.
È sbagliato difendere il sistema a prescindere, ma non servono scorciatoie e fughe in avanti, mentre è imprescindibile rimettere al centro della politica il bene comune.