Sono trascorsi trent’anni dall’assassinio di don Peppe Diana, parroco a Casal di Principe, ucciso dai clan camorristi, che misero a tacere questo giovane sacerdote che parlava di giustizia, denunciava i soprusi, incoraggiava fedeli e preti ad uscire dalle comode e sicure sacrestie, a ribellarsi al sistema mafioso e a lottare per il riscatto dei propri territori e della propria gente.
“A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta”. Parole provocatorie quelle di don Peppe, pronunciate durante un funerale, uno dei tanti, celebrati in quella terra insanguinata dalla violenza dei clan.
Nessun dubbio che Dio era al suo fianco quella mattina del 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, quando nella sua parrocchia, rivestito con gli abiti liturgici si apprestava a celebrare l’Eucarestia e venne freddato da cinque colpi di pistola, tutti al volto. Una violenza infame rivolta contro un uomo mite, colpevole soltanto di essersi schierato al fianco del suo popolo contro la camorra che asfissiava la sua città, distruggeva vite e cancellava ogni speranza di futuro. Cinque colpi di pistola per soffocare quel grido alzato tre anni prima da don Peppe: “per amore del mio popolo non tacerò”.
Sacerdote vero, vicino ai più fragili, ai disabili, agli immigrati, tra i primi ad aprire le porte della sua comunità cristiana ai fratelli africani e alle donne vittime di tratta e prostituzione, non ebbe paura di esporsi e pronunciare la parola camorra, di denunciare la criminalità organizzata nella sua attività di pastore e negli articoli pubblicati sul mensile Lo Spettro.
“La camorra chiama ‘famiglia’ un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà. La camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di famiglia, strumentalizzando perfino i sacramenti. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo a volte a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime”. Parole inequivocabili e dure, rivolte contro collusi e fiancheggiatori della camorra, annidati anche all’interno della stessa Chiesa.
Un eroe? Un santo? Probabilmente don Peppe Diana si sarebbe fatto una risata al solo pensiero. Eppure può accadere e spesso accade, senza neppure pensarci e rendersene conto. Si fanno scelte di campo, ci si incammina con coraggio lungo la strada faticosa della verità, della giustizia e della libertà. Si crede nei valori, si prendono sul serio al punto da infastidire potenti e delinquenti, da spingerli all’omicidio pur di far tacere, d’imporre la logica normalizzante del servilismo e della sottomissione.
La tragedia assume contorni ancor più assurdi e abnormi quando sulle opposte barricate si ritrovano non estranei, ma persone con cui si sono condivise amicizie e giochi, scampagnate e banchi di scuola, la fatica di guadagnarsi da vivere e le passioni. Accade che le strade si dividano, le scelte personali portino ad approdi esistenziali differenti, si combatta su sponde opposte, si ingaggi un braccio di ferro tra bene e male e una battaglia senza esclusione di colpi.
Don Peppe Diana lottava a mani nude e la sua unica arma era il Vangelo. Non aveva a disposizione killer e guardaspalle, non ricorreva a minacce e violenze per imporsi. Eppure non era don Peppe a temere i camorristi, ma costoro a tremare di lui. Sebbene fossero armati di pistole e mitragliette, girassero con macchine di lusso e avessero cospicui conti in banca, vantassero agganci con la politica e la mafia siciliana, erano tanto apparentemente duri quanto di fatto fragili, tanto spavaldi quanto intimoriti da un prete, un piccolo Davide che osava ancora una volta sfidare il gigante Golia.
Don Peppe Diana era un semplice prete, un vero prete, un vero Casalese, un vero italiano, ma non di quelli che insozzano, calpestano, insanguinano le strade, le case, la vita di Casale e di qualunque altra nostra città.
“Diana non fu ucciso per caso ma perché prete e organizzatore di una seria azione di denuncia dell’attività criminale della camorra, dell’illegalità sociale sistemica e della gestione politica clientelare, oltre al sacerdotale impegno per la formazione delle coscienze, soprattutto dei giovani, all’interno di una precisa scelta pastorale ispirata alla Sacra Scrittura e tesa tra evangelizzazione e profezia”. (S. Tanzarella, Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, Il pozzo di Giacobbe).
Il messaggio di don Peppe non si è spento con lui, la sua eredità morale e spirituale, il suo sguardo sull’umanità e sulle cose trovano terreno fecondo nella sua fede in Cristo e nella sua storia per rigenerarsi e rinnovarsi incessantemente nel presente e nel futuro.