Lo stillicidio quotidiano di inchieste, coinvolgimenti eccellenti per le più differenti situazioni, per i più incredibili episodi di disonestà nella pubblica amministrazione, alimenta l’impressione che il nostro Paese sia governato da una classe politica tra le peggiori. I giudizi sommari sono sempre ingenerosi ed è sbagliato accumunare tutti in un indistinto. I politici e gli amministratori perbene che hanno a cuore il bene comune sono la stragrande maggioranza, ma certo fanno più notizia quanti rimangono impigliati nelle maglie della giustizia.
Da alcune settimane le forze politiche che sostengono il governo di Giorgia Meloni avevano imbastito una campagna mediatica martellante, sulla scorta di quanto era emerso dalle indagini della magistratura nei confronti di alcuni esponenti del Partito Democratico in Puglia e altrove, quando a guastare i giochi è arrivato l’arresto di un pilastro storico del berlusconismo, il governatore della Liguria Giovanni Toti. L’accusa è di quelle ricorrenti per certa politichetta arraffona: corruzione.
Siamo nella fase delle indagini preliminari ed è necessario essere garantisti. Fino alla pronuncia della sentenza definitiva vale per tutti gli indagati il principio della presunzione di innocenza, anche se il quadro emergente dall’inchiesta è desolante e ciò a prescindere da eventuali responsabilità penali delle persone coinvolte.
Immancabile si è levata la voce dei solerti garantisti a convenienza, i quali hanno subito evocato la giustizia ad orologeria, la magistratura politicizzata e l’immancabile complotto, in ragione del fatto che gli arresti sono scattati a pochi giorni dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Una querula litania e nulla più di quanti vorrebbero una giustizia funzionale agli interessi della politica.
Sono trascorsi oltre trent’anni dalla lavatrice di Mani Pulite, ritenuta un passaggio catartico, uno strumento purificatore. In tanti hanno sperato che potesse rappresentare lo strumento utile non solo per fare pulizia e allontanare i corrotti dalle stanze del potere, ma soprattutto per ripartire su presupposti altri e diversi. Si è trattato di una grande illusione. Concretamente non è cambiato nulla, anche perché si trattava di una strada sbagliata, di una scorciatoia inefficace, tanto è vero che il malaffare all’interno delle istituzioni ha continuato a riproporsi pervicacemente e con modalità identiche ai modelli illeciti di allora. Sicuramente qualcosa è mutato, ma purtroppo in peggio. La qualità media della classe politica si è livellata verso il basso e in passato non ha mai toccato livelli di mediocrità, sotto diversi punti di vista, come quella di oggi.
La responsabilità non è della magistratura, la cui funzione istituzionale è perseguire gli illeciti e garantire il rispetto delle leggi, piuttosto di noi cittadini, noi società civile che siamo rimasti incastrati dentro lo schema di tangentopoli, prigionieri di un modello e di una relazione sbagliata tra politica e magistratura e incapaci di esercitare appieno la nostra funzione di controllo e di scelta democratica.
Ci siamo fatti abbagliare dai populismi, affermatisi in questi anni, abbiamo fatto nostra non la proposta politicamente più adeguata, ma quella che più solleticava i nostri peggiori istinti e offriva soluzioni semplicistiche a problemi complessi.
I partiti, ridotti a comitati elettorali, hanno poi delegato alla magistratura il controllo etico delle candidature. La dimostrazione più clamorosa di questa loro incapacità di selezionare la classe dirigente secondo standard qualitativamente alti e dell’assenza dentro di sé degli anticorpi indispensabili per individuare e rimuovere il marciume è rappresentato dalla cosiddetta black-list sfornata ogni anno dall’Antimafia, ovvero la lista degli impresentabili. È stata data una sorta di delega in bianco alla Commissione Parlamentare Antimafia, ridotta a ruolo di Questura, la quale anziché occuparsi in via esclusiva della comprensione profonda del fenomeno mafioso, ormai non fa altro che ispezionare il casellario giudiziario segnalando l’impresentabilità dei candidati.
È bene precisare che non tutte le condotte sono qualificabili come malaffare, anzi spesso è questione di opportunità, di stile e di moralità. Il problema è il contesto generale, in cui la normalità sembra essere violare le regole, anche quelle meramente comportamentali e non giuridiche, che però se osservate eviterebbero a un ministro di fermare il treno o ad altri personaggi pubblici plurindagati di restare al loro posto. Dominano l’idea dell’impunità e la vulgata che l’assoluzione da parte della magistratura, magari con un proscioglimento già in fase istruttoria, rappresenti un lavacro in grado di restituire l’onorabilità e si trascura che alcune condotte sono eticamente deplorevoli anche se non si qualificano come reato.
Nel nostro sistema politico c’è molto che non va.
Servirebbe un senso di responsabilità comune in luogo dell’abbandono all’impotenza e alla rassegnazione, che finiscono per costituire un sostegno diretto alla tracotanza e alla sicumera della politica politicante.