Lo scontro tra politica e magistratura è un eterno ritorno, si impone nel dibattito pubblico ciclicamente e per lo più avviene con toni sbagliati, che rischiano di farci perdere di vista le cause profonde di queste tensioni.
Per comprendere appieno la questione è opportuno fare un passo indietro nel tempo.
La storia inizia in Francia tre secoli fa con la teorizzazione della separazione dei poteri dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario, ad opera di Montesquieu, il quale con il suo trattato sullo Spirito delle leggi nel 1748, ben 51 anni prima della Rivoluzione Francese e nel contesto della monarchia assoluta in cui Luigi XV°, re di Francia, concentrava nella sua persona ogni potere ed era legibus solutus, ossia non assoggettato alle leggi da lui stesso dettate, poneva le basi della complessa gestazione del costituzionalismo liberale in Europa.
Il principio della separazione dei poteri ha avuto la sua prima incompleta attuazione nella monarchia parlamentare inglese con il Bill of Rights ed ha trovato attuazione piena solo a distanza di due secoli, dopo essere passati attraverso le rivoluzioni americana del 1776 e francese del 1789 – 99, le degenerazioni del terrore e della Vandea, la restaurazione e le due guerre mondiali nel secolo scorso.
Soltanto alla fine della II° guerra mondiale il costituzionalismo liberaldemocratico, che prevede la netta separazione dei poteri, si è affermato in maniera piena e ha improntato in modo sostanziale le democrazie pluraliste contemporanee.
Uno dei testi costituzionali che attua con maggior rigore il principio della separazione dei poteri è la Costituzione della Repubblica italiana, nata dalla mediazione di forze cattoliche, comuniste, azioniste, socialiste e liberali, che sedevano nell’Assemblea Costituente, aventi tutte l’obiettivo di fissare dei principi che tutelassero i cittadini dalla possibilità del ripetersi delle condizioni che avevano portato alla dittatura nazifascista. A tal fine per prevenire la possibile prevaricazione del potere esecutivo sugli altri poteri, come avviene in quelle che oggi definiamo democrature, cioè democrazie formali ma gradualmente scivolanti verso autocrazia e autoritarismo, la nostra Costituzione ha previsto un complesso sistema di contrappesi affinché nessun potere, a cominciare dall’esecutivo, abbia la possibilità di fagocitare gli altri e dilagare in ambiti non propri. L’indipendenza della magistratura, requirente e giudicante, e la sua soggezione solo alla legge, la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica, la centralità del Parlamento, la composizione mista della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura costituiscono i tasselli fondamentali per garantire appunto il principio della divisione dei poteri.
Il tentativo di espansione del potere esecutivo, a scapito di Parlamento e ordine giudiziario, con riforme della giustizia che costituiscono fattori di rischio di uno scivolamento antidemocratico in quanto finalizzate a restringere l’indipendenza della magistratura, spesso in modo subdolo, hanno riguardato numerosi paesi, europei e non, come l’Ungheria, la Polonia, Israele, la Turchia, la Tunisia e molti altri ancora. Anche in Italia, soprattutto negli ultimi decenni, il tentativo della politica e nello specifico del potere esecutivo di trasbordare dal proprio ambito e di mettere sotto tutela la magistratura, di limitarne l’autonomia e controllarne l’operato si è fatto piuttosto ricorrente. L’insofferenza verso l’azione dei giudici e l’accusa di una loro politicizzazione, ogni qualvolta un’indagine investe esponenti politici dell’uno o dell’altro schieramento, è segno palese di una politica affetta dalla sindrome del Re Sole, del sovrano legibus solutus e insofferente ad ogni forma di controllo del proprio operato sotto il profilo della legalità. Insomma ogni volta che la magistratura sfiora le stanze del potere, l’accusa rivoltale è di sconfinare nel campo della politica.
Orbene c’è del vero nel fatto che quando uno dei poteri è inerte, l’altro tende a rafforzarsi a scapito degli altri, ma quasi sempre l’accusa alla magistratura di travalicare il proprio ambito e di agire per fini politici nasconde una certa nostalgia dei tempi in cui la giustizia era omogenea alla classe dirigente e viaggiava a due velocità, accondiscendente con il potere e severa con le fasce deboli della società.
Nei momenti di maggior tensione tra politica e giustizia capita di sentir ripetere che i magistrati dovrebbero limitarsi ad applicare le norme, evitando di interpretarle. È un assunto insensato. Il fatto stesso di applicare una norma generale e astratta a un caso concreto presuppone un’interpretazione da parte dei magistrati e l’idea di produrre leggi estremamente dettagliate per impedirlo è un assurdo giuridico. La norma, priva dei requisiti della generalità e dell’astrattezza, produce sempre ingiustizie sostanziali in quanto obbliga a trattare in modo rigidamente eguale situazioni diseguali nella realtà. Senza contare poi che il sindacato sull’interpretazione corretta della legge non spetta né al Parlamento e né al Governo, ma unicamente alla Corte di Cassazione, che nei casi più complessi interviene a Sezione unite, mentre la Corte Costituzionale ne accerta la legittimità sotto il profilo costituzionale.
Tenere fermi tali assunti non significa certo dimenticare o cancellare quanto non va all’interno della magistratura, le pessime prove di sé che hanno dato tanti magistrati nell’esercizio delle proprie funzioni e non, gli scandali in cui sono rimasti coinvolti, ma certo tutto questo non può rappresentare un valido motivo per mettere in discussione un sistema di garanzie costituzionali voluto dalle madri e dai padri costituenti a tutela dei diritti e delle libertà di tutti.
Piuttosto che rincorrere scorciatoie e stratagemmi improbabili ed improponibili, servirebbe una profonda rigenerazione morale, culturale e politica di tutta intera la classe dirigente del nostro Paese e sarebbe necessario farlo anche piuttosto urgentemente.