Riceviamo e pubbichiamo un articolo di Don Anselmo Mazzer.
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“Desidero vivamente invitarvi a non stemperare questa difficoltà, a non svuotarla, e perciò a non far diventare tutte le attività, con cui stiamo ammirevolmente cercando di sopperire alla mancanza di una azione pastorale ordinaria, una sorta di surrogato di ciò che non c’è, che faccia dimenticare ciò che manca”.
E’ ciò che afferma il nostro Vescovo in una lettera rivolta a tutti i preti in queste ore.
Vi dicevo qualche tempo fa che non si tratta di fare, in questa situazione, semplicemente qualcosa, in attesa che tutto passi.
Si tratta di cogliere in profondità ciò che il Signore oggi può volerci dire.
Una signora della parrocchia, con le lacrime agli occhi, mi ha detto a proposito della adorazione eucaristica presieduta dal Papa: “Lì non c’era una piazza e una basilica vuote, perché lì c’era tutto il mondo”.
Leggendo venerdì santo su Fatto a Latina un editoriale di Lidano Grassucci (un giornalista sezzese che conosco bene e che si è sempre professato miscredente), mi sono venuti i brividi.
Sta accadendo quello che forse non è accaduto nelle precedenti settimane sante in cui tutto era regolare: un vuoto che cerca e gusta una pienezza.
Io stesso, forse perché preso, insieme ai ministranti, dalla esecuzione dei vari riti, non ho mai vissuto così intensamente la settimana santa come quest’anno.
La mancanza dei riti (che in fondo sono facili da porre, sono gratificanti e possono scivolare nello spettacolo) mi ha fatto pensare a Gesù che ha fatto sparire tutti i riti che c’erano (Gv 4,21-24). Paolo lo aveva ben capito subito.
Valeva la pena togliere tutti i riti, per metterne altri?
Gesù nell’ultima Cena ha posto un rito che non è un rito: la sua totale donazione, corpo offerto e sangue versato, concretizzatasi subito sul legno della croce.
E tutto questo in un ambiente di estrema semplicità: c’era “solo” un tavolo, un gruppo di persone attorno, un pane e una coppa di vino leggermente annacquato e nient’altro. Eppure lì c’era tutto, non mancava assolutamente niente.
Io stesso che vi ho detto queste cose tante volte, ancora non riesco a “rassegnarmi” che il nostro Dio si è incarnato in un paesino sperduto del Medio Oriente, in grotta adibita a stalla con dentro la puzza di pecore e capre, che è morto su una croce davanti cinque persone (non si sa se erano presenze storiche o tipologiche), che è risorto davanti a nessuno. E’ questo lo stile del nostro Dio? Si. E magari i nostri riti cercano di edulcorare questo stile che ci sembra non sufficientemente appariscente.
Non si tratta di svalutare il valore antropologico del rito, né di celebrare con sciatteria. Anzi, tutt’altro. Si tratta di considerare, però, il rito come un mezzo e non un fine (entrare nell’intimità di Cristo e dunque nella sequela di Lui).
Se andiamo al racconto della lavanda dei piedi il discepolo “che Gesù amava” (cioè ogni vero discepolo) aveva reclinato il capo sul petto di Gesù. L’immagine che immediatamente ci appare è l’orecchio del discepolo accostato, fisicamente, al cuore di Gesù per sentirne profondamente i battiti.
Questa esperienza ci deve profondamente catturare. Qualche volta non riusciamo a “vedere” il Risorto perché non abbiamo intimità con Lui. Ascoltare i battiti del cuore è l’intimità con una persona con la quale vogliamo condividere l’esistenza. Per questo intuiamo perché il discepolo che Gesù amava “correva” e correva più veloce di Pietro, perché dove c’è intimità si corre, perché c’è attrazione. C’è un’esperienza che avvolge talmente la nostra esistenza che il correre è il linguaggio dell’innamoramento.
La resurrezione la coglie solo quel discepolo che lasciandosi amare ha il coraggio di reclinare il capo sul petto di Gesù, di entrare nella sua intimità.
Tutto questo non è una teoria, nasce da un profondo vissuto che caratterizza l’esperienza del discepolo e gli dà la gioia della risurrezione.
Viviamo quest’anno questa Pasqua, apparentemente vuota, ma in realtà forse mai così piena, perché possiamo poi di riflesso dire agli uomini: Gesù è risorto!
Auguri!
Don Anselmo