Si racconta che nel Giappone del XV° secolo viveva il nobile Ashikaga Yoshimasa, VIII° shogun dello shogunato Ashikaga, generale dell’esercito imperiale e feudatario, il quale amava bere il tè dalla sua tazza preferita. Un giorno mentre sorseggiava il tè, la tazza gli scivolò dalle mani e rovinò a terra, infrangendosi in numerosi pezzi. Sconsolato per l’accaduto raccolse fino al più piccolo frammento e li inviò in Cina affinché fosse riparata, non volendo rinunciare alla tazza. Quando le venne restituita constatò però che i pezzi erano stati riattaccati con legature di metallo brutte e poco funzionali. La sua tazza sembrava fatalmente perduta. Ashikaga Yoshimasa era così legato alla sua tazza che non si arrese e l’affidò alle cure di artigiani giapponesi, che sorpresi dalla sua tenacia nel cercare di riaverla, decisero di ripagare i suoi sforzi. Trascorsi alcuni giorni restituirono la tazza allo shogun, il quale constatò che era stata riparata in maniera eccellente, arricchita e impreziosita, essendo state le fessure riempite con una resina laccata e ricoperta d’oro. La tazza era più bella e possedeva un valore più grande. Gli artigiani crearono così la tecnica dello kintsugi, del riparare con l’oro, che si diffuse in tutto il Giappone. L’oggetto rotto veniva trasformato in qualcosa di prezioso, sia per l’oro che ricopriva le fratture, sia perché acquisiva veste nuova con le linee dorate d’irripetibile casualità che lo rendevano unico.
Lo kinsugi oltre ad essere un’arte, è simbolo e metafora del modo di affrontare avversità, rovesci e sofferenze. L’imperfezione, la crepa, la ferita raccontano la vita, sono preziosità che esaltano e rivelano il cammino di ricostruzione, sono come le cicatrici del guerriero che torna dal campo di battaglia. Occorre valorizzarle, sono un tesoro da cui attingere e imparare. La guarigione non è mai istantanea, richiede tempo e pazienza, ma ci irrobustisce e ci rende unici. Come la pelle si riforma più spessa e forte dove ci tagliamo formando la cicatrice, così quando patiamo dolori e ferite nell’animo ne usciamo fortificati e maturati.
Nel nostro mondo governato dalla logica del materiale e dell’efficiente, dello scarto e dell’inutilità non solo delle cose ma anche delle persone non rispondenti a criteri di produttività, arricchimento e bellezza estetica, la sofferenza di questi giorni ci obbliga a prendere atto della nostra fragilità, a misurarci con lo sgretolamento di sicurezze personali, affettive, sociali, economiche. La pandemia segna una rottura che investe i diversi piani del nostro vivere, ha carattere non transitorio e costituisce un passaggio, una cesura storicamente rilevante. Il virus ci accompagnerà per un tempo lungo o breve, questo al momento non lo sappiamo, dovremo conviverci fin quando non verrà sconfitto dalla scienza. Sicuramente il nostro domani sarà diverso rispetto a ciò che è stato il nostro ieri ed è il nostro presente, ma la direzione verso cui evolverà questa alterità dipenderà dalla nostra capacità di prendere in mano noi stessi, di raccogliere i frammenti sparsi delle nostre vite, di ricucirli e ritesserli pazientemente, non solo a livello personale ma anche relazionale e sociale. Dobbiamo assumere al contempo la veste dello shogun, con la sua caparbietà di non rinunciare alla tazza da tè tanto amata e degli artigiani in grado di inventarsi una nuova arte della ricucitura, con cui restituire vita, bellezza e futuro a quanto ritenuto perduto, inutilizzabile e di cui disfarsi. Le cicatrici saranno i segni della battaglia combattuta, dello scontro da cui ci siamo rialzati, della vittoria conquistata, della nuova occasione guadagnata e non dovremo nasconderle né vergognarcene. La strada da percorrere non sarà facile, ci riserverà passaggi impervi, c’imporrà di rivedere stili di vita, abitudini, convinzioni e avremo meno disponibilità per il superfluo e l’effimero. Nondimeno costituisce una opportunità per ricostruire e ricostruirci usando un collante eccezionale e prezioso: la solidarietà. Si tratta di far leva non su un sentire di reciproca vicinanza legato al contingente che viviamo, ma di riconoscere validità e dare corpo a ciò che in questi giorni abbiamo sentito ripetere: ci salveremo non da soli, ma tutti insieme.
Tutto vero, giusto e condivisibile, ma alcuni segnali che si vanno manifestando non sono rassicuranti. Personalmente non nutro antipatie lessicali, ma il termine ripartire, impiegato in dibattiti e discussioni per indicare la necessità di rimettere in moto la macchina produttiva del nostro paese e riprendere la socialità, pur con le dovute cautele per scongiurare una ripresa del contagio, indispensabile vista la oggettiva impossibilità di permanere in condizione di stasi a tempo indeterminato e perchè deleteria economicamente, mi cagiona allarme. La sensazione è che alcuni ormai da un po’ orfani di visibilità mediatica e magari in crisi di consensi, lo intendano come un riprendere esattamente da dove ci siamo fermati prima d’essere investiti da questo tsunami. E così sono ricominciate le polemiche sterili e fondate sul nulla, le giravolte, le intraprendenze fuori luogo, le smanie di onnipresenza, è ripartita la macchina del fango con bugie e insulti, si è ripreso a soffiare sul fuoco del rancore sociale, si sono tornati ad additare i soliti nemici contro cui scagliarsi, sperando di innescare e di lucrare sui conflitti tra noi e gli altri, i penultimi e gli ultimi, i poveri e i poverissimi, gli italiani e gli immigrati, scommettendo che sconforto, difficoltà economiche o superficialità inducano molti a cadere nel tranello premiando i ritrovati provocatori.
Il fallimento dei violenti manipolatori, dei professionisti dell’odio e del risentimento, dei fomentatori degli egoismi personali e di gruppo, di quanti classificano le persone per appartenenza etnica, linguistica, culturale, religiosa e per provenienza geografica è l’unica speranza. Se li lasceremo prevalere i tempi difficoltosi che ci aspettano diverranno insostenibili e ci trascineranno nel sicuro fallimento. Soltanto se sapremo ricucire le fratture personali e sociali con il filo d’oro della solidarietà tutti insieme avremo un futuro.