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Sabato, 16 Novembre 2024 15:50

Licia Pinelli, combattente per la verità e la giustizia

 

 

Si è spenta all’età di 96 anni Licia Rognini, vedova di Giusep...
Sabato, 09 Novembre 2024 18:43

 

 

Noi ci prendiamo cura di voi… È possibile effettuare in loco gli accertamenti diagnostici ed avere un quadro completo della situazione clinica, senza dover attendere i tempi lunghi del Servizio Sanitario pubblico”.
 
Il messaggio che si legge sul sito di THERAPIA S.r.l., società che gestisce tre poliambulatori a Bitonto, è chiaro e, per quanto sia sgradevole, fotografa la cruda realtà della sanità pubblica del nostro Paese, abbandonata a se stessa, senza risorse e sotto organico di medici di base ed ospedalieri, di infermieri costretti a turni massacranti e pagati in maniera inadeguata e dove i Pronto Soccorso sono autentici gironi infernali. In questi ultimi anni la situazione è progressivamente peggiorata e a farne le spese sono tanti cittadini comuni, privi delle possibilità economiche di rivolgersi alle strutture private per eseguire esami ed essere curati. Spetterebbe alla politica, in particolare a quanti sono investiti del compito di governare i territori e l’Italia, trovare soluzioni concrete, a cominciare dal reperire le risorse per invertire la rotta e garantire il diritto alla salute, formalmente riconosciuto nella Costituzione della Repubblica e mai attuato interamente. L’esperienza della pandemia sembrava aver fatto prendere coscienza della necessità di aprire una fase nuova per la sanità pubblica, ma ben presto le grandi promesse sono state archiviate e dimenticate, nulla è cambiato e la sanità è soltanto un ottimo argomento propagandistico per confondere i cittadini in questa sorta di campagna elettorale permanente che è la politica odierna.
 
La destra al governo non sembra minimamente preoccupata dello stato della sanità pubblica. La riduzione delle risorse in termini assoluti destinate a curare i cittadini e l’eliminazione dalla manovra del piano di assunzioni straordinario rappresentano la prova lampante della volontà dell’attuale maggioranza di non cambiare nulla e allo stesso tempo di favorire la sanità privata e garantirne sempre maggiori guadagni.
 
Se tutto ciò è inaccettabile, ancor di più è assolutamente vergognoso che un parlamentare della Repubblica, autorevole esponente di Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa, sia stato chiamato a far parte del Governo per occuparsi di sanità e, anziché risolvere per esempio il problema delle liste d’attesa, come proprietario del 10% delle quote della società che gestisce tre poliambulatori, inviti i cittadini ad andare a curarsi nelle proprie strutture. È già imbarazzante che un sottosegretario al ministero della Salute abbia quote in una clinica privata, ma fa arrabbiare che quella stessa clinica faccia pubblicità denigrando il Servizio Sanitario nazionale, sostenendo che non funziona.
 
Quattro milioni e mezzo di italiani rinunciano a curarsi ogni anno e svariati altri milioni sono costretti a indebitarsi per accedere a visite e esami, per fare privatamente terapie, interventi e prevenzione che gli ospedali pubblici rinviano di mesi e anni e il sottosegretario alla Salute si arricchisce. Liste d’attesa e mancanza di investimenti saranno pure un dramma per gli italiani, ma sono un business per il Fratello d’Italia, sottosegretario al ministero della Salute, il quale ha peraltro ottenuto una legge che delega alle farmacie (guarda caso lui è farmacista) attività mai concesse prima. 
 
Siamo molto oltre il conflitto di interessi e la Presidente del Consiglio, come sempre accade quando le situazioni non le aggradano, si rifugia in un distaccato silenzio, si guarda bene dal commentare, dallo spiegare come abbia potuto nominare in un ruolo così delicato di amministrazione della sanità pubblica, una persona così esposta nel settore della sanità privata e figuriamoci dal prendere qualsivoglia iniziativa che nel caso specifico dovrebbe essere l’allontanamento del sottosegretario dal governo. Una eventualità questa peraltro da escludere, visto che Marcello Gemmato è un suo fedelissimo nel partito e un suo amico personale, che tutti gli anni organizza per lei e la sua famiglia le vacanze in Puglia.
 
Giorgia Meloni dovrebbe farsi un giro alle file dei CUP e nei Pronto Soccorso per constatare di persona la disperazione di quanti non riescono a curarsi, ad avere l’esame diagnostico di cui hanno bisogno, anche quando i medici indicano l’assoluta urgenza, come succede per i pazienti oncologici. Si accorgerebbe che al di là della retorica populista ed identitaria di cui si ammanta, del vittimismo ormai stucchevole cui ricorre quando non ha argomenti per replicare alle critiche, della ricerca continua di capri espiatori, dei proclami e della propaganda con cui cerca di distrarre l’opinione pubblica e di nascondere i fallimenti del suo governo e della spinta all’occupazione, a livello parossistico e predatorio, di tutte le casematte del potere secondo una logica familistica ed amicale, c’è un Paese reale da governare, molteplici problemi da affrontare e il bene comune da perseguire.
 
Il problema è che la destra al governo non ha un progetto per l’Italia, ma anche le opposizioni stentano a metterne in campo uno alternativo, credibile e convincente.
 
E in questo marasma a rimetterci sono solo i cittadini.
Sabato, 02 Novembre 2024 16:16

 

Negli incontri di judo la vittoria è annunciata da un grande tonfo, si tratta del rumore sordo del corpo dell’avversario che sbatte sul tatami, il tappeto giapponese sul quale si svolgono gli incontri. In quel momento l’atleta vincente però non esulta, mantiene la compostezza e attende che l’avversario sconfitto si rialzi per scambiarsi il Rei, il tipico inchino della cultura asiatica. Solo dopo gli è consentito di mostrarsi felice.
 
Tuttavia accade che non tutti gli atleti, nonostante la vittoria, possono essere felici, magari perché il Paese che rappresentano nella competizione sportiva, nega loro il diritto di esserlo, come accade a Leila Housseni, la judoka protagonista del film Tatami – Una donna in lotta per la libertà.
 
Guy Nattiv e Zar Amir, un israeliano e una iraniana, firmano la regia di un film di straordinaria forza espressiva che, raccontando la vicenda personale di una judoka iraniana, preparatasi a lungo e tra mille difficoltà per partecipare ai campionati del mondo di Tiblisi, ci fa immergere nella cruda realtà di un regime asfissiante, che spegne ogni libertà e ogni possibilità di iniziativa personale.        
 
Protagoniste del film sono due donne, Maryam Ghambari, allenatrice e mentore di Leila Housseni, bellissima e testardissima campionessa che insegue il sogno di conquistare la medaglia d’oro e non è disposta a rinunciarvi per nulla al mondo. Due donne apparentemente diverse, si scontrano, si confrontano, si sostengono, si allontanano e infine tornano a solidarizzare tra loro.
 
Leila e Maryan le incontriamo per la prima volta sul pullman, in viaggio verso la capitale della Georgia, dove si stanno tenendo i campionati mondiali di judo, insieme alle altre atlete della nazionale femminile.
 
A Tiblisi tutto sembra andare nella direzione sperata. Leila Housseni è in grande forma ed è determinata a perseguire il proprio sogno. Vince in scioltezza i primi due incontri e sembra destinata ad arrivare fino in fondo nella competizione. La medaglia d’oro è una prospettiva molto concreta e niente potrà impedirle di ottenere un così prestigioso risultato. Niente, a parte il governo del suo Paese. Infatti quando appare sicuro che proseguendo nella sua marcia trionfale Leila Housseni si troverà a dover gareggiare con l’atleta israeliana, il regime di Teheran decide di intervenire, di fermare la sua corsa verso il podio più alto, a qualunque costo e con qualsiasi mezzo.     
 
Il governo degli ayatollah inizia a fare pressioni sull’allenatrice, la quale in un primo momento cerca di opporsi come può a quella assurdità, ma poi è costretta a cedere a causa delle minacce sempre più forti verso lei e la sua famiglia. Leila Housseni deve fingere un infortunio e ritirarsi. Tuttavia le pressioni e le minacce si scontrano con la determinazione a non cedere alla richiesta del regime della giovane judoka. Forte del sostegno del marito, che è rimasto in Iran e che, venuto a conoscenza di quanto sta accadendo riesce a scappare e a mettersi in salvo con loro figlio, Leila Housseni decide che è giusto rischiare tutto, non solo la sua carriera di atleta ma soprattutto la sua stessa vita. Così con un grande scatto di orgoglio si trasforma nella paladina coraggiosa della battaglia per la libertà, contro l’oppressione e l’ingiustizia del regime islamico che distrugge le vite e il futuro.
 
Tatami – Una donna in lotta per la libertà è la storia di una piccola grande rivoluzione, un film emotivamente potente, bellissimo e terribile per quello che racconta, di una attualità bruciante e soprattutto capace di dimostrare che la storia la fanno le donne e gli uomini comuni e non esclusivamente i potenti e gli eserciti. Soprattutto apre uno spaccato sulla società iraniana e ci aiuta a cogliere appieno il ruolo in prima linea delle donne nella battaglia per il cambiamento, per la libertà e i diritti civili e politici che si sta combattendo in Iran. Orgoglio, testardaggine e ribellione sono armi capaci di minare le basi e in prospettiva di far esplodere il regime islamico. Opporsi ai regimi liberticidi implica sempre un prezzo altissimo da pagare sul piano personale. Mettere a rischio la propria vita e le proprie sicurezze, rinunciare ai propri sogni e al proprio piccolo mondo egoistico è però a volte l’unico modo per cambiare veramente le cose. Pertanto la lotta fisica sul tatami di Leila Housseni si fa metafora della lotta psicologica, politica ed esistenziale che trascende la sua individualità. La scelta di girare il film in bianco e nero non è estetica, ma universalizza questa idea, materializza la natura estrema del riscatto ed è funzionale a rendere appieno la drammaticità della vicenda narrata, dei risvolti e delle conseguenze terribili che si prospettano per quanti osano ribellarsi al regime e a trasmettere tutto il rigore della denuncia politica che lo anima e lo caratterizza.
 
I registi, Guy Nattiv e Zar Amirhanno, hanno unito le proprie diversità, le proprie appartenenze apparentemente così distanti e conflittuali e si sono scoperti affratellati nella condivisione dell’arte, dell’estetica e del cinema, offrendoci un racconto, scarno, diretto, sofferto e sincero, che anche grazie alle potenti interpretazioni delle due protagoniste, ne fanno un vero tesoro e un bellissimo esempio di cinema civile, che colpisce le coscienze e i cuori degli spettatori.

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