Il tema dell’ergastolo ostativo, oggetto del dibattito politico in ragione della recente pronuncia della Corte Costituzionale, è argomento fondamentale anche se complesso e ostico, suscettibile di travisamenti, tentazioni giustizialiste e strumentalizzazioni da parte dei professionisti del populismo, dei paladini di legge ed ordine (ovviamente rigorosamente valevoli per gli altri e con esenzione totale per se stessi), dei social giustizieri, che già paventano una generalizzata liberazione di tutti gli ergastolani, mafiosi e terroristi compresi. Pertanto è importante capire l’esatta portata di quanto accaduto e cosà potrà accadere realmente nel prossimo futuro.
Nel 2019 la Corte Costituzionale, fra i cui giudici sedeva anche l’attuale Ministro della Giustizia Marta Cartabia, aveva dichiarato parzialmente incostituzionale il comma 1 dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario che escludeva dai permessi premio i condannati all’ergastolo per reati di mafia e precisamente nella parte in cui “non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Chiamata a pronunciarsi nuovamente dai giudici di merito, la Consulta ha giudicato definitivamente incostituzionale l’ergastolo ostativo, introdotto nell’Ordinamento Penitenziario all’inizio degli anni novanta, dopo le stragi in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in quanto contrastante con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia i giudici hanno rinviato la decisione finale, cioè la formale dichiarazione di incostituzionalità, con la conseguente inapplicabilità della norma, ad un momento successivo. Si tratta di una scelta già adottata in altri casi, quando cioè la pronuncia della Corte Costituzionale rischia di sfiorare l’ambito della discrezionalità politica. L’ordinanza del 15 aprile 2021 lascia dunque al legislatore un lasso di tempo (fino a maggio 2022) per approntare una nuova normativa e indica un itinerario equilibrato finalizzato a contemperare i principi costituzionali con l’esigenza di reprimere i reati commessi dalla criminalità organizzata e la necessità di confermare l’utilità della collaborazione con la giustizia.
Cos’è l’ergastolo ostativo?
L’ergastolo è una pena senza termine ed è stato ritenuto legittimo costituzionalmente e per la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo solo perché lascia aperta la possibilità di recupero del condannato, sia pur attraverso un percorso lungo e severo. Per usufruire dei benefici è necessario scontare ventisei anni di detenzione, avere avuto una condotta irreprensibile in carcere, aver rotto da lungo tempo ogni legame con la criminalità e aver intrapreso un percorso di ravvedimento e di reinserimento. Si tratta di condizioni che devono essere accertate concretamente da un Tribunale.
Finora i condannati per mafia, terrorismo e altri reati gravi potevano chiedere i benefici solo se collaboravano con la giustizia, altrimenti ne erano esclusi. Così facendo lo Stato, in un momento di necessità e urgenza, aveva deciso di non esercitare il proprio potere e dovere, cioè infliggere una pena in linea con i principi costituzionali della rieducazione e risocializzazione del condannato.
Cosa ha deciso la Corte Costituzionale?
La norma dichiarata incostituzionale con le due pronunce stabiliva il divieto automatico di concedere i benefici a quanti essendo condannati per mafia, terrorismo e gli altri reati previsti non avessero collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale ha deciso che l’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario viola l’art. 3 e soprattutto l’art. 27 della Costituzione, che stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La non collaborazione pertanto va valutata dal giudice, come avviene per tutti gli altri reati non rientranti appunto nell’art. 4 bis. Insomma la regola diventa uguale per tutti i condannati.
Ci ritroveremo mafiosi, terroristi e autori di reati efferati in giro per le città?
Assolutamente no! Le pronunce della Consulta non rendono automatica la concessione dei benefici, ma soltanto una possibilità. Un magistrato valuterà caso per caso e chi non ha fatto un percorso riabilitativo, non risulta che abbia reciso i vincoli associativi, anzi si può prevedere che possa riallacciarli, cioè è ancora socialmente pericoloso non potrà ottenerli in nessun caso.
Le pronunce della Corte Costituzionale indeboliscono la lotta alla mafia?
La lotta alla mafia va condotta senza tregua, con norme efficaci che vadano a colpire i suoi interessi vitali. Occorre prosciugare socialmente ed economicamente il brodo di coltura che le permette di prosperare. Tuttavia possono essere diverse le ragioni per cui il condannato non collabora, anche se si è allontanato dal mondo criminale, alcuni delle quali umanamente comprensibili. Può accadere che sa poco o nulla o è a conoscenza di reati commessi da persone decedute o già condannate. Spesso a prevalere è la paura per l’incolumità dei propri familiari, trovandosi di fronte all’alternativa di parlare per avere permessi premio o iniziare un percorso di semidetenzione, esponendo però i familiari al rischio di morte, oppure non chiedere nulla, restare in carcere e salvaguardare la loro incolumità. E se il detenuto è innocente e ingiustamente condannato, cosa dovrebbe fare? Inventarsi fatti di cui non è a conoscenza per ottenere un minimo di benefici? Senza contare poi che la collaborazione può essere strumentalizzata per conflitti interni alla cosca mafiosa, per eliminare gli avversari. Infine chi assicura che chi collabora è realmente “uscito” dalla mafia? Accade anche che chi collabora rimane mafioso e una volta fuori ricostituisce i legami con l’organizzazione criminale. Bisogna invece esaminare la vicenda particolare di ogni persona, seguire con attenzione e severità il percorso rieducativo, valutando caso per caso.
La Costituzione della Repubblica, i suoi principi e i suo valori debbono essere sempre da riferimento e guida al nostro vivere comunitario, ivi compresa l’amministrazione della giustizia. La pena, nella prospettiva indicata dai costituenti, possiede una funzione rieducativa dell’autore del reato, è finalizzata ad aiutarlo ad emanciparsi dal proprio crimine e ad reinserirsi nella comunità civile. Il recupero del reo non può essere negato o escluso e il suo perseguimento è misura del rispetto della dignità umana e metro di definizione della civiltà di una nazione.