“La cosa più bella della Resistenza fu la nostra solidarietà: gli uni con gli altri. Non importava se eri comunista, prete, socialista o liberale: eravamo persone che resistevano e questo ci rendeva uniti. E’ esattamente ciò che manca all’uomo di oggi: mancano idee forti che ci uniscano, idee fondamentali, essenziali. Che senso ha oggi la parola onore, che senso ha la lealtà, la fedeltà, l’espressione “io sto con te”. Tutto è comprabile, tutto è vendibile, tutto è cedibile. E si trovano sempre le motivazioni per giustificare quelli che una volta chiamavamo“tradimenti””. (Don Giovanni Barbareschi).
Celebrare il 25 aprile non è semplicemente rievocare una pagina importante del nostro passato, compiere il dovere civico e morale di chi considera la storia un patrimonio insuperabile delle nostre radici di popolo, esaltare il coraggio di quanti combatterono dalla parte giusta, quella della libertà e della giustizia, e con il loro sacrificio posero le basi della nostra democrazia, i cui principi e valori sono solennemente scolpiti nella Costituzione della Repubblica. Infatti se ci fermassimo semplicemente a questo, per quanto encomiabile e condivisibile, la memoria della liberazione dal nazifascismo finirebbe per perdere il suo senso più autentico, rischierebbe di scolorire in una mera rievocazione simbolica e nostalgica, di essere solo un rito stanco e sterile, un volgersi all’indietro fine a se stesso, incapace di impattare efficacemente il presente che viviamo, sarebbe insomma soltanto un rimando ad accadimenti destinati con lo scorrere inevitabile del tempo ad affievolirsi, a storicizzarsi, a perdere peso e rilevanza nel corpo vivo della nostra società.
Lo sfilacciamento del tessuto sociale del nostro paese, accompagnato dal prevalere degli interessi particolaristici ed egoistici, personali e di gruppo, è conseguenza della perdita di riferimenti culturali forti, del senso di appartenenza ad una comunità unita nel medesimo destino, di un allentamento della tensione etica orientata al bene comune che contraddistingue l’agire di tanti cittadini e in definitiva del tradimento del patrimonio valoriale della Resistenza. Fondamentale è perciò il richiamo di don Giovanni Barbareschi, un testimone e un protagonista della lotta partigiana, circa la necessità di tornare alle idealità forti che ispirarono le donne e gli uomini della Resistenza, di riscoprire il senso autentico dell’onore, della fedeltà e della lealtà, di far prevalere le ragioni dell’unità nel rispetto della diversità, di non cedere alla logica mercantilistica per cui tutto è vendibile ed acquistabile.
Incarnando la ribellione morale e la ferma opposizione di molta parte del mondo cattolico del suo tempo, ponendosi come riferimenti essenziali la fede e la sensibilità cristiana prima ancora che le ragioni ideologiche e politiche, don Giovanni Barbareschi scelse di non rimanere inerte e indifferente dinanzi alla violenza fascista e nazista e, insieme a tante altre donne e uomini di diversa estrazione e cultura, diede il proprio concreto contributo per riscattare la nostra patria, per restituirle dignità e onore. “Educato in una famiglia antifascista era logico che io mi mettessi dalla parte della Resistenza e mi schierassi al fianco di coloro che si opponevano ad una mentalità, ad un modo di fare, alla Repubblica di Salò, al regime fascista. In tanti abbiamo detto di no e il nostro no era convinto…. Vorrei però mettere in evidenza che la forza più grande della Resistenza non è stata quella “armata”, bensì quella di tutte le persone che si opponevano con un gesto, con una mentalità, con un rifiuto: la vera Resistenza fu una resistenza morale e ad essa noi preti abbiamo dato una testimonianza autentica”(Don Giovanni Barbareschi). L’adesione a Cristo e la convinzione profonda e radicale che il primo atto di fede che un uomo deve compiere è nella sua libertà, nella sua capacità di essere e diventare sempre più persona libera, perché la fede e la libertà dell’uomo non si dimostrano ma si credono come un mistero, portarono don Giovanni Barbareschi (morto a Milano il 4 ottobre 2018), Giusto fra le Nazioni, medaglia d’argento della Resistenza e medaglia d’oro del Premio Isimbardi, in tempi di pace Giudice del Tribunale Ecclesiastico regionale, insegnante nelle scuole superiori, amico di Don Gnocchi, il prete dei mutilatini, ad una netta scelta di campo, a schierarsi al fianco degli oppressi e dei perseguitati. Dapprima da diacono e membro dell’Opera soccorso cattolico e poi da giovane sacerdote, resistette all’omologazione alla dittatura e respinse prima ancora che con le armi e la violenza con il fermo e risoluto rifiuto la mentalità e l’ideologia devastante e disumana del nazifascismo, in quanto totalmente antitetiche e incompatibili con il cristianesimo. La sua fu una ribellione che partì dai piccoli gesti quotidiani, forte della determinazione morale ed etica di chi professa ed incarna valori veri che travalicano contingenze e convenienze e non è disposto a scendere a compromessi, a piegarsi alla sopraffazione e al sopruso. Nel buio dell’orrore della guerra e nel mezzo delle atrocità indicibili perpetrate dai nazifascisti, si fece luce di speranza, adoperandosi per portare in salvo in Svizzera oltre duemila prigionieri alleati, antifascisti ed ebrei. Catturato dalle SS e incarcerato a S. Vittore, fu sottoposto a un durissimo interrogatorio dal quale uscì con un braccio spezzato, ma senza proferire parola che potesse tradire gli amici.
L’insegnamento fondamentale che dobbiamo trarre dalla memoria della lotta di liberazione è la necessità di porre a cardine del nostro impegno civile, sociale e culturale la difesa dei valori, dei principi e delle prospettive di progresso che furono pensati e voluti per il futuro dell’Italia dalle donne e dagli uomini della Resistenza, appartenenti ad ogni schieramento politico, cattolici, socialisti, azionisti, militari, monarchici, comunisti, liberali, i quali pur diversi per idealità e aspirazioni combatterono in unità di intenti per un paese giusto, libero, aperto e solidale e si fregiarono tutti dello stesso nome: i partigiani.
Siamo chiamati, individualmente e comunitariamente, ad un esame di coscienza laico, a riconoscere i tanti errori, ritardi e insufficienze nel colmare la grande distanza ancora oggi esistente tra gli ideali partigiani e l’Italia contemporanea. La democrazia, la giustizia e la solidarietà rappresentano gli strumenti indispensabili per sconfiggere il disegno oscuro della prevaricazione, dell’esaltazione delle diseguaglianze, della discriminazione del diverso e dello straniero, del ritorno allo sfruttamento indiscriminato delle risorse e del lavoro umano, la nuova veste assunta dal fascismo odierno che tenta di ricacciarci all’indietro e usa tutte le armi disponibili, comprese quelle subdole della mistificazione, del negazionismo, della denigrazione strisciante, del distacco dalla storia, dell’umiliazione della cultura.