“Siamo il Paese dell'integrazione quando sei un giovane talento o quando segni il gol decisivo in una partita importante, ma che si rifiuta di essere servito al ristorante da un ragazzo di colore. Siamo il Paese dell'integrazione quando l'atleta vince la medaglia alle Olimpiadi. Siamo il Paese dell'integrazione che cerca improbabili origini italiane quando l'attrice che ci fa emozionare vince il Premio Oscar, ma che quando in classe con i propri figli ci sono dei ragazzi di colore storce il naso. Io non posso neanche immaginare cosa abbia provato Seid Visin, ma sono certo che un Paese che spinge un giovane ragazzo a fare un gesto così estremo è un Paese che ha fallito” (Claudio Marchisio).
Sono trascorse appena alcune settimane dalla morte di Seid Visin. Nell’immediatezza dell’avvenimento in tanti hanno espresso il proprio cordoglio per la triste sorte di questo ventenne, giovane promessa del calcio italiano, capace di non lasciarsi irretire dalla sirena del successo e del denaro facile e di privilegiare la scuola, hanno speso parole formali e invero assai poco convincenti di condanna per il razzismo. Ben presto è scesa una cortina di silenzio. Dietro la patina dell’apparente unanime indignazione evidentemente per molti è stata solo l’occasione per ritagliarsi spazi di visibilità, per accreditarsi ipocritamente come fautori dei diritti e dell’integrazione, per confondere le acque e celare la propria sostanziale indifferenza e condiscendenza verso l’intolleranza, che contribuiscono a inoculare nel corpo vivo della società con gesti e discorsi inequivocabili e arroganti.
Il clamore passa velocemente, mentre il dolore resterà a tormentare le vite di quanti Seid Visin lo hanno conosciuto ed amato ed il resto dei commedianti dolenti tornerà a percorrere i sentieri di sempre, incuranti di essere indirettamente causa di quella morte, così come delle tante sofferenze di donne e uomini, le cui vicende non guadagnano le prime pagine dei giornali, i titoli di apertura nei notiziari televisivi o i post seguitissimi sui social.
Di fronte al gesto estremo di un ragazzo di intelligenza acuta e impegnato politicamente, pieno di interessi e punto di riferimento per gli amici, siamo disarmati, stentiamo a capire, a trovare un senso. Indagare le ragioni personali che hanno spinto Seid Visin a mettere fine alla propria vita è impossibile. Occorre piuttosto fare un passo indietro, fermarsi in rispettoso silenzio, sospendere i giudizi, evitare ogni illazione. Lo dobbiamo ai suoi genitori, a quanti lo hanno conosciuto ed amato. Se il razzismo, di cui è stato certo vittima o le altre ferite personali lo hanno spinto a compiere un simile passo probabilmente rimarrà per sempre e per tutti un mistero.
Tuttavia non possiamo esimerci dal riflettere sul contenuto della sua lettera, inviata nel 2018 agli amici e al suo psicoterapeuta, nella quale Seid Visin racconta, senza furori ideologici e con grande lucidità, la sua esperienza di ragazzo dalla pelle nera, il clima di ostilità crescente verso il diverso, il razzismo montante nel nostro paese. Leggerla è un pugno allo stomaco, non solo perché forse potrebbe anche spiegare le ragioni del suo gesto, ma soprattutto perché è il ritratto senza sconti della nostra Italia, arretrata, incarognita, incivile e spietata. Sono parole che bruciano, un marchio a fuoco nella nostra carne: possiamo anche ignorarle, ma non possiamo cancellarle. Sono lì, davanti a noi come una pietra di inciampo con cui dobbiamo fare i conti.
Seid Visin era italiano. Era stato adottato ed aveva la pelle nera. Si era illuso, insieme alla sua nuova famiglia, che la sua storia potesse avere un lieto fine dopo le sofferenze patite nel paese di origine, l’Etiopia, per la perdita di entrambi i genitori naturali. La bella favola dell’integrazione, coltivata sui banchi delle scuole elementari, è andata presto in pezzi, è svanita quando si è affacciato all’adolescenza e improvvisamente si è accorto che il nostro paese, che era anche il suo, ad un ragazzo dalla pelle scura non avrebbe riservato gli stessi diritti dei suoi coetanei dalla pelle chiara. Si è visto trattato con aggressività razzista, è stato oggetto di discriminazione, scherno, aggressione fisica e negazione della dignità. Ha perso il lavoro perché i clienti rifiutavano di essere serviti da lui, è stato accusato di rubare opportunità lavorative e di guadagno agli italiani e ha iniziato a vergognarsi di essere nero. Con alle spalle il trauma dello sradicamento dalla propria terra d’origine, la difficoltà di vivere a cavallo di due differenti culture, la lacerazione dei propri affetti più intimi, sperava che l’adozione avrebbe potuto essere un dono straordinario, un’opportunità di futuro e felicità ed invece gli sguardi delle persone, le parole vomitate contro di lui lo hanno investito efferate, si sono rivelate un incubo.
Subito dopo la notizia della morte non si è fatta attendere la campagna orchestrata dai soliti propagandisti dell’odio, diretta a derubricare l’accaduto, a collegare il suicidio solo ad una condizione di difficoltà personale di Seid Visin, ai possibili disturbi mentali di cui sarebbe stato affetto e così sminuire il problema del razzismo. Un comportamento ignobile, dal momento che i due aspetti sono strettamente legati tra loro e l’uno non esclude l’altro. Bisogna essere assai ingenui o in cattiva fede per cercare una sola e specifica ragione per cui una persona decide di compiere il gesto di togliersi la vita e soprattutto avere la presunzione di individuarla post-mortem.
C’è poi una cosa sul suicidio che si evita sempre di dire: non sempre è un atto contro se stessi, ma sovente contro gli altri, magari contro qualcuno che si vuol punire. In questa vicenda avverto che i destinatari del gesto di Seid Visin siamo noi, la nostra indifferenza, il nostro cieco odio, la nostra intolleranza, la nostra incapacità di offrire ad ogni persona, senza distinzioni, pregiudizi e discriminazioni, un paese accogliente in cui, nella convivialità delle differenze e nella pari dignità, costruire insieme il comune futuro.