“La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte”.
(Art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana).
La Costituzione italiana è la più bella del mondo.
È una frase che abbiamo sentito ripetere chissà quante volte. Il dubbio però è che tanti suoi cantori in realtà non l’abbiano neppure letta, di certo da molti viene ignorata e disapplicata. Alcuni apparati dello Stato agiscono spesso al di fuori della legge, si muovono in una sorta di mondo parallelo rispetto ai principi costituzionali e i cittadini subiscono violazioni dei propri diritti a causa di norme inadeguate, di una scarsa e addirittura assente formazione alla legalità dei rappresentanti istituzionali e di scelte politiche sbagliate. L’uso sproporzionato della forza, gli abusi, i veri e propri raid punitivi da parte dei corpi di polizia sono fenomeni allarmanti e tutt’altro che sporadici. La politica invece di assumere iniziative per imporre il rispetto della legge, sanzionare le illegalità e allontanare i responsabili, preferisce schierarsi in opposte tifoserie, dilaniarsi in sterili polemiche tra chi accusa e chi difende a prescindere e così finisce per accumunare in un indistinto i fedeli servitori dello stato e quanti invece lo infangano. L’uso della forza è legittimo unicamente per tutelare democrazia e cittadini e pertanto limitare diritti e libertà, violare la dignità umana arrivando perfino all’omicidio sono atti di gravità inaudita, specie se compiuti ai danni di persone che lo stato ha in custodia nelle proprie strutture, caserme o penitenziari.
In Italia il carcere rappresenta spesso una zona franca, in cui il diritto sembra sospeso, sia per le condizioni dei detenuti che per quelle di lavoro della polizia penitenziaria. I costituenti erano consapevoli della necessità di una riforma profonda per adeguare il sistema carcerario ai valori democratici e fissarono nell’art. 27 della Costituzione i principi dell’umanità della pena, vietando quelle lesive della dignità della persona, e della finalità rieducativa del carcere, il cui obiettivo non è solo punire il reo ma mirare principalmente alla sua rieducazione e al suo reinserimento nella società, che dovevano ispirare e guidare il legislatore ordinario. Si è dovuto attendere a lungo prima che il Parlamento intervenisse. La riforma delle carceri è stata approvata solo nel 1975, ma la situazione concreta è ancora oggi lontana dall’essere in linea con la Costituzione, tanto che il numero dei suicidi tra i detenuti è molto alto, gli istituti di pena sono sovraffollati e per questo l’Italia viene sanzionata continuamente dalla Corte Europea dei Diritti Umani e il tasso di recidiva è del 69%, cioè tornano a delinquere 7 detenuti su 10 che hanno scontato la pena in prigione.
Non occuparci del carcere come istituzione, rimuovere il problema, pensarlo come una realtà che non ci riguarda significa trasformarlo in una torre impenetrabile a tutto e a tutti, farne il lato oscuro e la coscienza sporca della nostra società. In discussione non è la punizione dei delinquenti, ma la perdita del senso di umanità: solo riabilitando alla legalità e non emarginando i condannati possiamo costruire una società sicura e giusta. In questi anni molte sono state le illegalità consumate dietro le sbarre, alcune emerse e tante altre invece rimaste sconosciute. La rivolta avvenuta in molti penitenziari italiani all’inizio del 2020, allo scoppio della pandemia, ha assunto contorni eclatanti, ha fatto emergere l’assoluta fragilità del nostro sistema carcerario e la necessità di una sua seria riforma, è costata milioni di euro in danni alle strutture e soprattutto 13 detenuti morti e moltissimi agenti e reclusi feriti. Le indagini aperte da diverse procure hanno cercato di fare luce sull’accaduto. In particolare è emerso che il 6 aprile 2020, all’interno della casa di reclusione di Santa Maria Capua Vetere, si è consumata “una ignobile mattanza”. Almeno trecento agenti della polizia penitenziaria, gran parte dei quali provenienti da altre carceri della regione, si sono accaniti su decine di detenuti inermi, colpevoli di aver inscenato il giorno prima una protesta rumorosa ed innocua con cui chiedevano l’adozione di misure per prevenire il Covid-19, dopo che un detenuto era risultato positivo. È stato non un intervento per ristabilire l’ordine e la sicurezza, dato che i detenuti dopo la protesta erano rientrati regolarmente in cella, ma una spedizione punitiva, una rappresaglia finalizzata a mettere in chiaro chi comanda, una raggelante punizione esemplare di massa, che ricalca un canovaccio sperimentato a Genova, durante il G8 del 2001. Come accaduto 20 anni fa uomini e donne in divisa hanno agito in modo squadrista, hanno messo in atto una macelleria, ignorato e sospeso i diritti costituzionali, colpito senza pietà persone inermi, mentre erano a terra, svenute e inginocchiate, manganellato persino un uomo in carrozzina. Ebbene sì, anche i detenuti sono titolari di diritti e in uno stato democratico sono altrettanto inviolabili di quelli di ogni altro libero cittadino! A mattanza avvenuta poi gli autori materiali e l’intera catena di comando hanno cercato di falsificare le carte, hanno costruito prove posticce per depistare le indagini e giustificare a posteriori le lesioni alla dignità e all’integrità fisica delle vittime e anche la morte di un detenuto. Il tutto avvallato amministrativamente e politicamente con superficialità e cinismo dagli allora vertici del Ministero della Giustizia e del governo.
Le immagini delle telecamere a circuito chiuso e le testimonianze delle vittime del pestaggio raccontano un oltraggio inaudito ai diritti umani e alla Costituzione Repubblicana, ma soprattutto dimostrano che c’è una bestia che alberga all’interno degli apparati dello Stato, che in particolare negli istituti penitenziari si può cessare di essere esseri umani e diventare “vitelli da abbattere”: così erano definiti i detenuti nelle chat degli agenti.
Il tempo delle parole è finito. Servono interventi radicali, punire i responsabili senza sconti, bonificare gli apparati dello Stato e ripristinare la legalità costituzionale. Occorre urgentemente rimettere mano alla legge Gozzini sull’ordinamento penitenziario, recuperarne lo spirito originario, umano e progressista che ha perduto per lasciare il posto all’idea del carcere come luogo dove scontare gli anni di condanna senza guardare ad una vita nuova da ricostruire per il dopo.