Il potere, di cui fa parte anche certa informazione che ama frasi ad effetto, iperboli e provocazioni, che irride e svilisce trincerandosi dietro un’indipendenza parolaia, generalmente detesta cultura e intellettuali, si rapporta a loro in modo strumentale, per trarre vantaggi dalla loro forza persuasiva, dalla loro utilità nella formazione e mantenimento del consenso, per consolidare uno zoccolo di lettori e ascoltatori, ma in fondo li considera un incomodo specialmente quando rivendicano la libertà di plasmarsi e strutturarsi dal basso, nel sociale e non sotto la sua ala protettrice, si sottraggono al suo controllo, parlano con indipendenza, autorevolezza e competenza e perfino osano mettersi di traverso rispetto ai suoi progetti ed obiettivi.
La cultura è incessante acquisizione di coscienza critica, che consente alle persone di affrancarsi da ogni asservimento, dal sonno della ragione che le rende irresponsabili e indifferenti a quanto accade.
Pensare per il potere e i suoi incensatori di professione è pericoloso perché significa non accettare acriticamente quanto elargisce e vuole farci credere, ma porre domande e cercare risposte. Partiamo da noi, dalla nostra vita, dalla nostra esperienza e poi allarghiamo la riflessione, coinvolgiamo gli altri e non ci accontentiamo di risposte preconfezionate.
Il potere non è un monolite, non è circoscritto ad un campo esclusivo ma è poliedrico, si manifesta in varie forme, possiede una struttura diffusa, articolata, stratificata, opera dalla politica all’economia e all’informazione, è in incessante trasformazione e il suo fine è la salvaguardia e la perpetuazione di sé contro ogni possibile antagonista.
Nei regimi autoritari, in quelli che solo formalmente sono democrazie, in tanti stati anche dell’Europa governati da autocrati che si professano orgogliosamente illiberali, la cultura e gli intellettuali sono avversati, i loro spazi di intervento e influenza sono ridotti, silenziati, avvolti in una cortina di invisibilità e costretti alla clandestinità, sono spesso anche destinatari di persecuzioni morali e fisiche.
Nelle nostre democrazie, forti e strutturate, il potere è soggetto a limiti e contrappesi, ma la sua insofferenza verso la cultura e gli intellettuali è parimenti presente, solo si manifesta con modalità più subdole, sovente non esplicite anche se altrettanto efficaci. Politici affabulatori e intolleranti si proclamano unici interpreti della volontà del popolo e non accettano dissenso e critica. Prediligono le masse osannanti ai cittadini consapevoli. La cultura è tra i loro bersagli preferiti, la etichettano come arrogante, elitaria, l’additano al pubblico disprezzo. Definiscono gli intellettuali freddi, ciarlieri, sentenziosi, moralisti, arroganti, antipopolari, snob per il fatto di possedere un titolo di studio e perciò inutili e dannosi. Abili nel manipolare il consenso e distogliere l’attenzione dai problemi veri, si propongono come risolutori e interpreti di un futuro di progresso e di sviluppo, spingendo le persone a mantenere una mediocre forma mentis, concentrata solamente nel proprio particolare, a credere che tutto dipende dalla personalità del potente di turno cui sono affidate le leve del comando e non invece dalle coscienze individuali.
In alcuni periodi storici la priorità è stata riconosciuta al pensiero e l’agire è stato considerato figlio della cultura, della riflessione. Secondo una tradizione risalente a Socrate l’azione giusta presuppone la conoscenza, l’ingiusta invece è conseguente all’ignoranza. La nostra è invece un’epoca attivistica, conta realizzare quanto tecnicamente possibile senza domandarsi se sia giusto e saggio. La ricerca, la conoscenza, la sperimentazione e soprattutto la critica appaiono inutili perdite di tempo. Il sapere viene diffuso, le coscienze si formano e la partecipazione si realizza attraverso i media, i social, internet. L’idea imperante è che trattasi di mezzi egualitari, che ponendosi sullo stesso piano e usando lo stesso linguaggio delle persone comuni, si prestano ad essere compresi da tutti senza sforzo, sono adatti ad una società di grandi numeri e sono perciò pienamente democratici. Invero è soltanto una grande illusione, funzionale al mantenimento dello status quo: è una democrazia falsa quella che si rappresenta, che si nutre di messaggi semplicistici e anestetizzanti.
La democrazia autentica è critica, come insegna Gustavo Zagrebelsky, capace cioè di mettere in discussione se stessa, che non si appaga di quanto raggiunto, riconosce i propri limiti, corregge i propri errori, persegue un bene che è tale in relazione al momento e al contesto particolare, è sempre in ricerca del meglio. La democrazia è veramente tale se non si considera infallibile, se ritiene un cedimento inammissibile a un’ideologia sbagliata affermare che la maggioranza ha sempre ragione. Ovviamente questo non significa che la maggioranza ha presumibilmente torto, come sostiene un pensiero antidemocratico ed elitario che distingue nella società i migliori, una ristretta minoranza cui spetta assumere il governo e compiere le scelte, dai peggiori, la gran parte delle persone, destinate alla subalternità. La questione fondamentale è che in democrazia non esiste ragione e torto, ma diversità di idee, valutazioni e soluzioni. La maggioranza ha diritto di decidere cercando di coagulare il più ampio consenso e la maggiore condivisione, consapevole che la sua è una assunzione di responsabilità nei riguardi di tutti. Solo così le decisioni superano la dimensione della tutela del particolare e diventano perseguimento del bene comune. Se il criterio di giudizio è ragione / torto, la conclusione è che la minoranza, avendo torto, non ha nemmeno ragione di esistere, sono lecite instaurare la dittatura della maggioranza e la sua eliminazione anche fisica.
La democrazia ha bisogno della cultura e degli intellettuali. Alimentare le facoltà critiche e nutrire le coscienze individuali contro l’appiattimento non è un lusso ma un’esigenza vitale. Dobbiamo contrastare quanti cercano di allontanare da noi il dubbio e l’inquietudine, quanti vorrebbero la delega a pensare al posto nostro, quanti in nome dello stare in pace a curare i nostri affari e interessi vorrebbero privarci della coscienza e trasformarci da soggetti in oggetti.