Ci sono avvenimenti che catalizzano l’interesse dei media per intere settimane ed altri invece che rapidamente vengono consegnati all’oblio e all’indifferenza. La storia di Amra, 23 anni, vittima di una violenza intollerabile, di una lesione dei suoi diritti e della sua dignità di donna da parte delle istituzioni, dalle quali sarebbe stato logico invece attendersi tutela e protezione, merita di essere raccontata perché ci aiuta ad aprire gli occhi su una realtà che preferiamo troppo spesso rimuovere o ignorare.
Il 3 settembre scorso, nella Sezione Femminile della Casa Circondariale di Rebibbia a Roma, Amra ha dato alla luce la propria bambina nella cella dove era detenuta senza l’assistenza di un medico, tantomeno di una ostetrica, ed esposta al rischio di possibili complicanze conseguenti al parto. Si è trattato di un evento tutt’altro che imprevisto, dato che quando è stata arrestata era molto avanti con la gravidanza. Le doglie sono iniziate all’improvviso, nel cuore della notte, e Amra ha partorito da sola, aiutata soltanto dalla compagna di cella, anche lei incinta al quinto mese. Richiamati dalle grida e dalla richiesta di aiuto delle due donne, gli agenti penitenziari hanno allertato il medico del carcere, ma quando finalmente si è deciso ad arrivare la bambina era già nata. Non c’è stato il tempo nemmeno di trasferire Amra in infermeria data la rapidità con cui è avvenuto il parto. Solamente dopo madre e figlia sono state trasportate in ambulanza all’Ospedale Sandro Pertini, dove sono rimaste in osservazione per alcuni giorni, prima di essere dimesse.
Cittadina italiana di origine bosniaca, già residente nel campo rom di Castel Romano, Amra era stata arrestata alla fine di giugno per il furto di un portafoglio insieme ad altre due donne. Tutte e tre in stato di gravidanza, erano comparse innanzi al Giudice della IV sezione Penale del Tribunale di Roma. Per Amra l’avvocato d’ufficio aveva chiesto il patteggiamento e al contempo aveva prodotto dei certificati medici attestanti le complicazioni avute durante le precedenti gravidanze per dimostrare la rischiosità della sua detenzione cautelare in carcere. La richiesta di patteggiamento era stata respinta e la documentazione medica nemmeno presa in considerazione. Il giudice del Tribunale di Roma aveva disposto la detenzione nel carcere di Rebibbia per tutte e tre le donne, motivando la decisione con la quale applicava la “misura di maggior rigore” con la circostanza che le imputate non lavoravano e non avevano fornito l’indirizzo di una “dimora idonea”, ritenendo inoltre che le loro gravidanze non fossero un impedimento alla detenzione cautelare in un istituto di pena. A rendere ancor più grave l’accaduto sta la circostanza che Amra il 18 agosto era stata ricoverata in ospedale per un’emorragia conseguente alla gravidanza, ma il giorno stesso, rientrata l’emergenza, era stata riportata a Rebibbia, sebbene fosse palese che le condizioni generali in cui versava non erano per nulla rassicuranti. Ove ciò non bastasse la sua particolare situazione era stata segnalata dalla Garante per i detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, la quale aveva scritto al Tribunale il 17 agosto chiedendo la scarcerazione di Amra e proponendo in alternativa il suo ricovero nella Casa di Leda, una struttura protetta, aperta dal marzo del 2017, per la tutela delle detenute con figli minori, che può ospitare fino a sei persone e otto bambini da zero a 10 anni. Il posto c’era ma nessuno ha mai risposto a quella lettera.
Tutto questo oltre che inaccettabile sul piano umano, rivela anche una indiscutibile violazione della normativa vigente da parte della magistratura e dei responsabili della struttura carceraria. Il Codice di Procedura Penale stabilisce all’art. 275 che “se la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni (…), non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. Quali siano le “le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” che hanno portato ad escludere la concessione di una misura detentiva alternativa al carcere nel caso di Amra non è dato saperlo leggendo il provvedimento del Tribunale di Roma, né tantomeno si comprende per quale ragione il giudice non abbia applicato, dal momento che non poteva disporre gli arresti domiciliari, l’articolo 285 bis del Codice di Procedura Penale: “Il giudice può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri”. In situazioni come quella di Amra il carcere non può e non deve assolutamente essere adottato come misura di prevenzione. Infatti per le donne in gravidanza e le madri con bambini piccoli sono stati appositamente creati gli Istituti a Custodia Attenuata e inoltre l’art. 146 del Codice Penale prevede il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Insomma la detenzione preventiva in un penitenziario è una extrema ratio. Peraltro la legge di Bilancio 2021 ha istituito un fondo che prevede lo stanziamento, fino al 2023, di un milione mezzo di euro l’anno per all'accoglienza delle madri o dei padri con bambini al seguito nelle strutture già esistenti o da istituire. Purtroppo questo fondo non è ancora operativo: andrebbe sbloccato con l’adozione da parte del Ministero della Giustizia del relativo decreto di attuazione. In commissione Giustizia alla Camera infine è in discussione la proposta di legge Siani che prevede l’istituzione di un fondo dedicato che garantisca le risorse necessarie all'inserimento dei nuclei mamma-bambino all’interno di case famiglia e comunità alloggio, idonee ad ospitarli.
Nella vicenda di Amra le mancanze sono gravi e troppe. Quanto avvenuto prima nelle aule del Tribunale di Roma e poi a Rebibbia è una vergogna, anche se rappresenta solo uno dei tanti episodi gravemente degradanti che quotidianamente e in silenzio si consumano nelle carceri italiane
La politica da lungo tempo ormai non fa che dibattere su come riformare la giustizia. Tra proposte fantasiose, spesso al limite dell’assurdo e riforme tanto decantate quanto inconcludenti, peggiorative e gravemente lesive dei più elementari principi giuridici, purtroppo continuano ad essere ignorati e calpestati i diritti fondamentali delle persone riconosciuti e garantiti dalla Costituzione della Repubblica.