Cinquantacinque giorni dopo il sequestro di via Fani, nel corso del quale vennero trucidati i cinque uomini della sua scorta, il 9 maggio 1978 le Brigate Rosse assassinarono Aldo Moro. Questa vicenda ha segnato la storia del nostro Paese e continua a gravare sulla coscienza di noi tutti sia per il peso morale e politico dell’eccidio perpetrato, sia per le tante domande rimaste inevase. Quanto accaduto ci impone di mantenere viva la memoria di questo autentico servitore dello Stato, al quale l’Italia deve moltissimo e di studiarne il pensiero politico che può rappresentare ancora oggi un punto di riferimento importante per la nostra democrazia.
Tracciare un profilo esaustivo di Aldo Moro è impossibile per la sua ricca personalità e per la complessità dei suoi insegnamenti, ma possiamo evidenziare alcuni aspetti fondamentali del suo pensiero e della sua eredità politica.
L’obiettivo fondamentale dell’azione politica di Aldo Moro è sempre stato la realizzazione di una democrazia integrale, da conseguire riallacciando i rapporti interrotti tra la politica dei partiti e la società e incentivando la partecipazione di fasce sempre più ampie di cittadini all’interno delle istituzioni. Negli anni in cui fu segretario della DC (1959-1963) tentò di allargare la base democratica dello Stato con l’apertura a sinistra, includendo nell’area di governo il PSI e dando vita insieme con Fanfani alla prima esperienza di centro-sinistra e al contempo di aggiornare e rifondare l’intuizione del popolarismo sturziano per adeguarlo ai mutamenti intervenuti a livello sociale e culturale. Dopo la crisi del governo Fanfani, guidò direttamente tre successivi governi di centro-sinistra, avendo sempre come obiettivo la realizzazione della svolta politica teorizzata. L’esperienza non produsse i frutti auspicati, anche a causa delle resistenze interne nella DC e nel mondo cattolico e, trovandosi nell’impossibilità di portare avanti il suo progetto politico, passò all’opposizione all’interno del proprio partito, divenendo il leader della sinistra interna. Tuttavia non abbandonò l’idea di rafforzare la democrazia mediante l’allargamento della partecipazione nel governo di tutte le forze politiche che si riconoscevano nella Carta Costituzionale e lavorò con forza e determinazione per portare avanti un’ulteriore svolta politica, che aveva teorizzato da qualche tempo: l’incontro tra DC e PCI (cui mirava anche Enrico Berlinguer con la sua proposta del compromesso storico), definita la terza fase. Aldo Moro era convinto della necessità di immaginare nuovi percorsi politici, di realizzare un nuovo patto costituzionale affinché l’Italia approdasse ad essere una democrazia compiuta, portando il PCI prima nell’area di governo e poi ad assumerne direttamente la responsabilità, superando le contrapposizioni ideologiche ormai anacronistiche.
La democrazia parlamentare era per Aldo Moro la più alta sintesi che si sia mai riusciti a realizzare tra libertà e pluralismo, tra solidarietà e giustizia. Tuttavia lo Stato democratico, proprio per l’essenzialità del principio di tolleranza che lo caratterizza e lo sostanzia, è esposto a rischi e abusi quando nei cittadini vengono meno la coscienza morale, la cultura della legalità e il senso dello Stato, lasciando così campo libero all’anarchia, all’egoismo di singoli e di gruppi, a scapito del bene comune e della libertà. Per contrastare tale deriva Aldo Moro riteneva fondamentale il dialogo incessante, il contatto con le persone, il rispetto dell’altrui libertà, pensiero e volontà, operando contestualmente e concretamente per costruire una società liberata da ogni condizionamento, dal bisogno, dall’ignoranza e dall’umiliazione. Era sua ferma convinzione che le riforme che consentono ai cittadini di partecipare alla vita politica sono importanti, ma imprescindibile è riallacciare i rapporti tra politica e mondi vitali della società, nei quali i partiti dovrebbero affondare le proprie radici. La rottura con le radici sociali e culturali dei partiti, denunciata già da Aldo Moro, si è ulteriormente accentuata nel corso degli ultimi decenni, ha prodotto uno scollamento pericoloso tra istituzioni e cittadini e rischia di arrivare oggi ad un punto di non ritorno. Lo sfarinamento del quadro politico, l’affermarsi del populismo di vario orientamento e connotazione politica è preoccupante perché mette in pericolo le basi stesse della democrazia e apre le porte a possibili scenari neoautoritari, caratterizzati da una compressione degli spazi democratici e di partecipazione dei cittadini. L’errore da evitare è non solo sottovalutare la situazione, non andare nel profondo, ma soprattutto pensare in termini di contingenza e non di sviluppo storico. Ripartire dal pensiero di Aldo Moro, dalla sua idea di democrazia significa avere lo sguardo lungo, acquisire una rinnovata consapevolezza politica e culturale, metterci all’ascolto del nuovo che fermenta nella società, cogliere la domanda di nuovi equilibri che da essa proviene, riattivare gli indispensabili canali attraverso i quali la domanda sociale e anche la protesta possano giungere ad uno sbocco positivo, ad un vero rinnovamento, ad un più alto equilibrio sociale e politico, coinvolgendo tutti i cittadini nell’opera difficile di costruire la Repubblica come una vera casa comune, nella quale regnino la giustizia e la pace sociale, fondate sulla solidarietà.
Raccogliere oggi l’eredità politica di Moro significa insomma proseguire la sua opera di ricomposizione del tessuto culturale e morale del Paese, tessere pazientemente un nuovo patto sociale fra tutti i cittadini, ripartendo dai comuni valori di convivenza civile che sono garantiti dalla Costituzione.
È necessaria una sorta di costituente, non giuridica ma etico-culturale, costruire una unità morale che salvaguardi il pluralismo culturale, rimetta al centro i valori civili e democratici, restituisca un’anima ai partiti e alla politica. È questa la sfida con la quale ci dobbiamo misurare e l’obiettivo di Aldo Moro rimasto incompiuto, lasciato a noi come una eredità da sviluppare e portare avanti.