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Lavoro e dignità sono inscindibili

Mag 01, 2023 Scritto da 

 

 

Il 1° maggio è la festa dei lavoratori, di tutti i lavoratori, è la festa del lavoro ma non di tutto il lavoro, perché non tutti i lavori sono degni e meritano di essere festeggiati. La civiltà di un paese si misura, o dovrebbe misurarsi, con la capacità di offrire non semplicemente un lavoro a tutti, ma un lavoro degno, cioè rispettoso della dignità personale. Ogni qualvolta un lavoro non lo è, ha evidenti punti di contatto con l’asservimento, calpesta la dignità delle persone e viola i fondamentali diritti umani e la Costituzione della Repubblica.
 
Insomma avere un lavoro e basta non è accettabile, servono lavori che non siano strumenti di sfruttamento e espropriazione esistenziale. Se lavorare è fondamentale, ancor di più è sentirsi utili, indispensabili, una condizione di cui sono privati non solo i disoccupati, ma anche quanti sono intrappolati in lavori socialmente inutili o perfino dannosi per gli altri e per se stessi, come accade quando si inquina l’ambiente, mettendo a repentaglio la salute delle persone, e con lo stillicidio quotidiano di incidenti e morti sul lavoro a causa del mancato rispetto delle regole di sicurezza.
 
 
La nostra è una civiltà alla ricerca di senso in ogni campo e questo vale anche per il lavoro, forse soprattutto per il lavoro. In Memorie da una casa di morti, Dostoevskij scriveva: “Una volta mi venne il pensiero che se si volesse schiacciare del tutto un uomo, annientarlo, punirlo con il castigo più terribile (…) basterebbe soltanto conferire al lavoro un carattere di autentica, totale inutilità e assurdità”. Soltanto senso e scopo rendono il lavoro, anche quello durissimo, tollerabile e appassionante. Può sembrare un paradosso ma non lo è affatto.
 
Il lavoro degno e sensato è quello non primariamente qualificabile come merce di scambio, ma come mezzo di umanizzazione, di realizzazione piena della persona, di crescita individuale e collettiva. Un simile obiettivo deve avere portata generale e non può costituire prerogativa di pochi privilegiati.
 
Il 1° primo maggio è memoria delle battaglie civili e politiche combattute per rendere il lavoro un’attività umana degna, per cancellare le condizioni di lavoro e quei lavori che somigliavano, e ancora oggi somigliano, alla schiavitù e ci ricorda che il lavoro è soprattutto una questione politica, che ha a che fare con i rapporti di potere all’interno della società. Se poi consideriamo il lavoro una faccenda individuale, un contratto come gli altri dissipiamo un patrimonio di conquiste costate sacrifici e sofferenze, mettiamo in discussione i cardini stessi del nostro vivere comune e provochiamo forti squilibri tra le varie componenti sociali.
 
Nella storia della nostra civiltà c’è stata una progressiva evoluzione del lavoro, delle sue caratteristiche essenziali e la distruzione di talune sue forme inaccettabili, ma tale processo è tutt’altro che concluso. Tanti lavoratori oggi prestano la propria attività in condizioni riprovevoli, lesive della propria dignità e dei propri diritti, ricattati dai padroni o dai loro bisogni primari e per questo non fanno festa il 1° maggio. È fin troppo facile pensare o perfino pretendere che quanti si trovano intrappolati dentro lavori indegni, oltre che porsi la domanda sulla dignità del proprio lavoro, debbano agire di conseguenza e lasciarli: è un lusso impossibile. Le condizioni materiali e sociali nelle quali le persone vivono condizionano le loro coscienze e le loro scelte, le plasmano e impediscono spesso l’esercizio della piena libertà di ribellarsi alla non-dignità del lavoro svolto. È per questo che il livello morale, culturale e civile di una società si valuta dalla capacità di non obbligare i lavoratori a scegliere tra coscienza e sopravvivenza, tra eroismo etico individuale e appagamento dei bisogni primari propri e della propria famiglia.
 
Nel nostro Paese molti, troppi, lavoratori svolgono lavori sbagliati, incivili e indegni. Il loro numero è venuto progressivamente aumentando a causa della crisi economica, della pandemia e, circostanza ancor più grave, di leggi sul lavoro sbagliate e lesive dei diritti. I lavoratori veramente poveri, non solo di reddito ma anche di libertà, sono cresciuti in modo esponenziale.
 
È necessaria una nuova coscienza collettiva, attenta al lavoro e alla sua dignità. Accanto alla globalizzazione dei mercati vanno dilagando indifferenza ed egoismo. Il mondo del lavoro è il principale ambito dove si esplica la nostra vita, ma siamo civilmente ed eticamente distratti e miopi. La nostra attenzione si concentra sulle etichette dei prodotti alimentari per conoscerne le calorie e inseguiamo gli strumenti tecnologici più avanzati ed efficienti, ma non badiamo alle loro "etichette morali", alle ingiustizie consumate per procurarsi le materie prime e per produrli, allo sfruttamento indiscriminato delle risorse e delle persone.
 
In questi ultimi decenni l’errore gravissimo compiuto è esserci lasciati convincere che l’economia, la produzione e lo scambio delle merci potessero, anzi dovessero, essere lasciate agire senza controlli, autoregolandosi e perseguendo i propri fini a prescindere dai principi e dalle regole della democrazia. Fabbriche, uffici, banche, campi, supermercati e shopping on-line si sono trasformate in zone franche, dove vengono spesso sacrificati i diritti e le libertà dei lavoratori e il profitto è l’unico obiettivo, anche a costo di alimentare conflitti tra le varie componenti sociali ed arrivare alla guerra tra i popoli per avere il controllo delle fonti energetiche e in futuro dell’acqua.
 
Non è più possibile continuare lungo questa strada, abbandonare alla povertà intere fasce di popolazione, non consentire loro di potersi costruire il futuro, aumentare il divario tra una minoranza privilegiata e una maggioranza sempre più marginalizzata ed esclusa dalle dinamiche di benessere e realizzazione. Dobbiamo costruire il futuro, principalmente per le nuove generazioni, senza intrappolarle in rigidi compartimenti e gabbie esistenziali dalle quali è impossibile liberarsi. La politica spesso miope ed incapace di visioni lunghe, le associazioni di categoria, datoriali e dei lavoratori impegnate prevalentemente su altri fronti sono chiamate a un profondo ripensamento di metodi e contenuti, a compiere un salto di qualità urgente per rimettere al centro della politica e dell’economia l’uomo e la sua dignità.
Pubblicato in Riflessioni

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