Vladimir Putin deve la sua ascesa politica al fatto di essersi presentato ai cittadini russi come il garante della stabilità politica, colui che avrebbe messo fine alla lotta fra clan che aveva dilaniato la Russia dopo la caduta del regime sovietico. Per oltre venti anni ha costruito il suo potere sul mito dell’uomo forte, ha consolidato la propria egemonia, anzi la sua vera e propria presa sulla Russia, facendosi garante non dello stato di diritto ma degli interessi dei vari clan. In cambio della cessazione delle lotte per bande e del riconoscimento del suo potere, ha lasciato loro campo libero, la possibilità di controllare l’economia e accumulare ricchezze enormi. Al contempo ha dato vita ad un sistema fatto di redistribuzione dei redditi, di un apparato di sicurezza pervasivo e di un autoritarismo senza limiti, che si nutre di un controllo capillare della società con l’obiettivo di tacitare in modo sistematico ogni dissenso, fino all’eliminazione fisica degli avversari politici.
La rivolta armata di Evgenij Prigozhin, con l’occupazione della città di Rostov e la marcia armata verso Mosca, arrestata a 200 chilometri dalla capitale, hanno messo in discussione la narrazione del regime, ne hanno rivelato l’intrinseca fragilità e hanno rappresentato uno scacco clamoroso al progetto autarchico fin qui portato avanti da Vladimir Putin. La lotta fra clan, rimasta sopita a lungo, è riesplosa in maniera clamorosa, le milizie private che ad essi fanno riferimento hanno rialzato la testa, puntando direttamente ad obiettivi politici interni, ad allargare il controllo di ulteriori spazi di potere e ad accaparrarsi di nuove ricchezze, non esitando a mettere in discussione lo stesso Vladimir Putin.
Il capo dell’organizzazione Wagner, milizia mercenaria integrata nell’esercito russo e impiegata in Ucraina per fare il lavoro sporco, nelle scorse settimane aveva ripetutamente e violentemente criticato i capi militari, in particolare il ministro della difesa Sergei Shoigu e il comando militare guidato da Vitali Guerassimov, evitando però di prendere di mira direttamente il Presidente russo cui era strettamente legato, tanto da essere soprannominato il cuoco di Putin, essendo un imprenditore della ristorazione. Improvvisamente in un video dai toni inediti ha cambiato posizione ed ha proposto una lettura della guerra in Ucraina opposta rispetto a quella del capo del Cremlino. Prigozhin ha sostenuto che le popolazioni del Donbass non rischiavano affatto il genocidio da parte delle forze ucraine e che la NATO non si apprestava ad attaccare le repubbliche separatiste dell’Ucraina orientale. La cosiddetta operazione militare speciale nasce dalla volontà di potenza del ministro della Difesa russo e dall’intenzione di arricchirsi di comandi militari e oligarchi con la spartizione delle risorse destinate alla guerra, il tutto a scapito dei soldati mandati al massacro e della popolazione russa, unica a subire le conseguenze delle sanzioni internazionali. Putin, ha lasciato intendere Prigožin, sarebbe vittima della disinformazione messa in atto dalla cerchia dei suoi più stretti collaboratori, i quali avrebbero approfittato della debolezza della sua leadership.
È difficile credere che il capo del potente esercito mercenario non abbia valutato il rischio cui sarebbe andato incontro con queste dichiarazioni. Probabilmente era convinto che la gran parte dei cittadini russi, stremati dalla guerra e dalle sanzioni, lo avrebbero seguito. Fermo restando che il suo obiettivo non era fermare la guerra, quanto piuttosto imprimergli una svolta con l’impiego massiccio di forze speciali e di armi maggiormente distruttive per piegare la resistenza del popolo ucraino.
Nel discorso pronunciato in televisione Vladimir Putin, apparso visibilmente scosso e turbato, non ha minimizzato quanto stava accadendo, anzi ha drammatizzato la posta in gioco conseguenza della divergenza manifestatasi all’interno del potere centrale, ha definito una pugnalata alle spalle l’azione di Prigožin, ha affermato che i traditori sarebbero stati puniti, malgrado l’eroismo dimostrato in Ucraina, e che avrebbe resistito alla rivolta.
Quale destino Putin riserverà al leader della Wagner al momento non è dato saperlo. È pensabile che presto o tardi la sua vendetta potrebbe abbattersi su Prigožin, come accaduto in passato con quanti hanno osato mettere in discussione il suo potere. Il leader del Cremlino non può certamente tollerare a lungo lo sfregio ricevuto da Prigožin, il quale ha rivendicato lo scacco inferto e sbeffeggiato il suo vecchio mentore affermando di aver fermato “generosamente” le sue truppe a meno di 200 km da Mosca “per evitare un nuovo bagno di sangue”.
L’accettazione della mediazione di Lukashenko, presidente della Bielorussia e uomo fantoccio di Putin, poi non ha significato il ripristino della sovranità del Cremlino, ma ne ha certificato la fragilità e la crisi del ruolo di comando del presidente russo. È inoltre incontrovertibile che i militari hanno assunto un ruolo preponderante e dovranno presto fare i conti con la consistente presenza delle milizie mercenarie che hanno messo in discussione gli equilibri politici interni, la lealtà delle stesse truppe regolari e il sostegno degli oligarchi al Presidente Putin. In tale scenario i cittadini russi assistono impotenti ed inermi a questo pericoloso braccio di ferro.
Il dato significativo per i paesi europei e non solo è l’emergere di una preoccupante fragilità politica e istituzionale della Russia, un paese con un arsenale nucleare grandissimo e pericolosissimo, che se dovesse finire in mani sbagliate potrebbe mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità. Non può essere sottovalutato o considerato un dettaglio irrilevante il fatto che il capo di un esercito mercenario sia riuscito a gettare nel panico lo Stato russo, avanzando indisturbato con le sue milizie entro i confini della Federazione e a giungere a 200 chilometri da Mosca.