Piercamillo Davigo si è calato talmente nella parte del fustigatore dei costumi italici, da essersi ormai trasformato in una maschera. In nome di una concezione iperbolica e straniante dell’amministrazione della giustizia ha smarrito il senso dell’umanità e, traboccante di boriosa presunzione, considera normalità calpestare il servizio al diritto e alla legalità che ogni magistrato è chiamato a svolgere nell’esercizio delle proprie funzioni in uno stato democratico come il nostro, il quale ha il proprio fondamento nei principi e nei valori della Costituzione della Repubblica.
L’ex PM di Milano, che verrà ricordato per aver sostenuto, parlando dei femminicidi, tutto divertito, alla Festa del Fatto Quotidiano, che costano meno tempo e pena di un divorzio, per aver detto riferendosi agli indagati prosciolti e agli imputati assolti che “non esistono innocenti ma solo colpevoli di cui non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”, finendo poi lui stesso imputato e condannato in primo grado, qualche giorno fa ci ha regalato un’altra perla di indiscutibile valore, suscitando neanche a dirlo grande sconcerto e profonda ripugnanza per le sue affermazioni. Invero e sinceramente c’è da stupirsi dello stupore, considerato che siamo al cospetto di un incallito recidivo riguardo dichiarazioni scioccanti. Ospite del podcast di Fedez, Muschio Selvaggio, Davigo ha ripercorso la stagione di Mani Pulite e alla domanda del conduttore su come si fosse sentito di fronte alla tragica scelta di alcuni indagati di togliersi la vita, ha affermato con zelo da questurino: “Purtroppo, per quanto sia crudo quel che sto dicendo, in questo mestiere capita che gli imputati si suicidino. La mortalità nelle carceri per suicidio è più alta che fuori”. La freddezza con cui si è riferito a tragedie personali di tal fatta lascia di stucco. Davigo poi ha aggiunto: “Lo so che è una cosa spiacevole quella che sto per dire, ma è la verità: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono. Perché altrimenti il ragionamento porterebbe a dire: allora non fate le indagini”. Come se quanto affermato già non bastasse, alla domanda del conduttore se fosse dispiaciuto almeno per il fatto che qualcuno dei suoi indagati, come ad esempio Raul Gardini, si fosse tolto la vita, l’ex pm ha rincarato la dose: "Ma certo che dispiace. Prima di tutto, se uno decide di suicidarsi lo perdi come possibile fonte di informazioni". Insomma l’ex magistrato considera i suicidi un danno collaterale, tutto sommato una conseguenza da mettere in conto e un prezzo accettabile da pagare. Soprattutto poi tali gesti estremi rappresentano un danno per i pubblici ministeri, in quanto comportano la perdita di una fonte investigativa, e non un male in sé.
Non è necessario essere dei pericolosi alfieri del garantismo estremista per trasecolare di fronte a tanta tracotante mancanza di rispetto per la vita umana e per valutare simili affermazioni, a voler essere benevoli, quantomeno orripilanti.
Sotto il profilo strettamente giuridico e restando ancorati ai principi costituzionali un ex magistrato dovrebbe sapere bene che le persone detenute in via cautelare, prevista fino al tempo massimo di un anno, delle quali nessun giudice ha ancora accertato le responsabilità, non possono considerarsi colpevoli. Nel nostro ordinamento vige il principio della presunzione di innocenza e spesso gli imputati, ai suoi tempi come anche oggi, capita che finiscono prosciolti o assolti perché ritenuti non responsabili dei fatti loro contestati. Tuttavia una simile eventualità per Davigo, lo sappiamo tutti, non conta nulla, se si riferisce ovviamente ai comuni cittadini, ed è fondamentale invece se riguarda se stesso, trattandosi di un noto esponente di quella progenie di moralisti intransigenti, giudici inflessibili delle vite altrui ma strenui garantisti indulgenti e comprensivi se a dover essere accertati e giudicati sono i propri comportamenti. Quell’espressione, che derubrica la morte di un uomo indagato a perdita investigativa per il pubblico ministero, rivela la sua concezione dell’essere magistrato e la sua idea della funzione della custodia cautelare, evidentemente finalizzata ad essere uno strumento utile a strappare informazioni. L’indagato così si trova di fronte all’alternativa o parlare e riottenere la libertà o tacere e restare in gattabuia. Con buona pace anche di chi magari in carcere vi finisce innocente.
Un magistrato maneggia la vita delle persone, le loro libertà, le loro reputazioni, le loro famiglie, le loro imprese con dipendenti e collaboratori e pertanto dovrebbe usare il massimo della cautela per evitare danni irreparabili in caso di errori, sempre possibili e tutt’altro che rari. Chiunque di noi, quotidianamente e qualunque sia il lavoro svolto, si interroga se sta facendo la cosa giusta, se sta cercando di raggiungere il bene oppure se sta sbagliando. Davigo invece ha un atteggiamento notarile, freddo e presuntuoso, non nutre dubbi e non manifesta incertezze di alcun genere quando esprime i suoi giudizi e compie i suoi atti e questo è spaventosamente pericoloso perché rappresenta l’anticamera dell’autoritarismo.
Sarebbe un errore gravissimo e imperdonabile confondere un simile livore e un così profondo disprezzo, grondanti pregiudizio, verso gli altri con l’intransigenza e il rigore morale.
La speranza è che Piercamillo Davigo rappresenti un fulgido esempio di ciò che ogni buon magistrato non deve essere nell’esercizio della sua funzione e il non seguire le sue orme è il migliore omaggio ai tanti giudici che ci hanno rimesso la vita senza mai sparare stupidaggini, con le quali alimentare il proprio ego e la propria inutile smania di vuoto protagonismo.