“I lupi sono entrati in città; li percepiamo, li sentiamo; sono in giardino, in salotto, nella stanza dei bambini; proprio in questo momento, entro mi spingo contro la porta, stanno tentando di forzare la serratura….”.
Queste sono le parole pronunciate al telefono da un testimone della strage perpetrata dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023, un giorno apparentemente qualunque, come tanti, entrato nella Storia, che identifica l’orrore inevitabilmente associato alla parola più vergognosa del novecento, la Shoah, la caccia all’ebreo in quanto ebreo. Uomini, donne, bambini e anziani sono stati vittime di un’azione mirata a seminare morte, sofferenza e terrore. I “lupi” di Hamas hanno sgozzato non solo le vittime reali ma un intero popolo, il popolo ebraico.
È trascorso un anno da quel giorno e se l’orrore non è stato dimenticato, sicuramente è stato oscurato da quanto accaduto dopo in quel piccolo lembo di terra, arroventato da un odio viscerale di tutti contro tutti, dal precipitare del conflitto ultradecennale in una spirale infernale, in cui ciascuno assesta colpi all’impazzata nei confronti dell’altro senza minimamente valutare le conseguenze e soprattutto senza considerare il rischio di incamminarsi lungo una strada senza ritorno.
L’impressione è che il conflitto in Medio Oriente sembra essere sfuggito di mano ad Israele, all’Iran con la sua galassia di organizzazioni terroristiche, agli Stati Uniti e all’intera comunità internazionale. Tutto può accadere e può precipitare ancor di più in qualsiasi momento, fermo restando che alcuni fatti appaiono incontrovertibili.
In primo luogo il regime degli ayatollah, quando diede il via libera a Hamas per la carneficina di civili ebrei e la presa di ostaggi, non pensava che un anno dopo si sarebbe trovato isolato, con le propaggini armate di Hezbollah e Hamas, con cui terrorizza e ricatta il Medio Oriente da decenni, decapitate e la propria credibilità ridotta ai minimi termini sia politicamente che militarmente, visto che i suoi tentativi di colpire con attacchi missilistici Israele sono stati neutralizzati facilmente. In secondo luogo e non meno rilevante è che nessun paese arabo si è lasciato finora coinvolgere nel conflitto, se non occasionalmente e paradossalmente per aiutare Israele a intercettare i missili iraniani e per mandare aiuti umanitari a Gaza. Infine gran parte dei paesi arabi ha esultato per il colpo che le forze armate israeliane hanno sferrato a Hezbollah, in particolare per l’uccisione del suo leader, Hassan Nasrallah e non si è trattato soltanto di una reazione dei governi, ma anche e soprattutto delle popolazioni. La ragione va ricercata sia nel fatto che questo gruppo terrorista e il suo capo avevano preso in ostaggio il Libano e lo avevano trasformato in una base dell’imperialismo iraniano sia nella storica contrapposizione tra sunniti e sciiti.
Tuttavia queste considerazioni di politica generale non possono farci chiudere gli occhi su quanto sta avvenendo, sull’orrore che continuamente si somma ad orrore e sul fatto che proseguendo ottusamente sulla strada della violenza e dello scontro armato non si aprirà nessuna prospettiva di futuro né per il popolo israeliano né per quello palestinese.
Ridurre la discussione ad uno schieramento di tifoserie, dividersi tra filoisraeliani e filopalestinesi non porta da nessuna parte, anzi per molti versi appare perfino ridicolo, dato che nessuna persona ragionevole può accettare che siano esclusi o anche semplicemente limitati i legittimi diritti e le giuste aspirazioni dei singoli popoli. Il punto di svolta non può che essere rappresentato dall’indispensabile riconoscimento dell’altro e dalla ricerca sincera di una convivenza pacifica.
Partendo dalla situazione attuale occorrono passi avanti significativi da parte di tutti. I palestinesi non possono non condannare con forza e fermezza la barbarie abbattutasi ciecamente sui civili israeliani il 7 ottobre, un orrore che neanche i decenni di occupazione, violenze, oppressione possono giustificare, perpetrato dal regime autoritario, islamista e misogino di Hamas. Israele non può fare a meno di ricordare che il 7 ottobre non nasce dal nulla, ma da decenni di occupazione che se non può in alcun modo giustificare la carneficina perpetrata il 7 ottobre, non può neanche essere cancellata e soprattutto quanto accaduto non può essere usato dal governo israeliano, guidato da un leader screditato e interessato solo a mantenersi al potere per evitare di finire sotto processo per i diversi reati di cui è accusato, come una cambiale in bianco per annientare i palestinesi.
Fare i conti con quel maledetto sabato di un anno fa presuppone necessariamente di non lasciarsi fagocitare dall’odio cieco e dalla sete di vendetta in nome dei quali si rischia di giustificare gli errori e gli orrori del passato e quanto di terribile potrà ancora accadere, tantomeno significa essere irrispettosi nei confronti delle vittime e delle centinaia di migliaia di sfollati palestinesi e israeliani, ignorare il dolore e la rabbia che attraversano intere generazioni di palestinesi, la gran parte nati e cresciuti nei campi profughi o sotto l’occupazione in Cisgiordania, o cosa ha rappresentato il 7 ottobre per gli israeliani, e per molti ebrei nel mondo, cioè la sensazione di non essere al sicuro da nessuna parte, l’angoscia per gli ostaggi, il ricordo del trauma della Shoah oltre a tutte le altre violenze subite nel passato.
Fare i conti con il 7 ottobre non significa equiparare nulla, tantomeno dimenticare le responsabilità dei diversi protagonisti in campo, ma cercare di calarsi nell’altro e di comprenderne le ragioni, tralasciando gli interessi geopolitici, dei governi e personali dei vari leader, e ripartire dai sentimenti e dalle speranze delle persone comuni.
Se continuerà a prevalere il desiderio del completo annientamento dell’altro non ci potrà essere speranza di pace e di convivenza, che richiedono il reciproco riconoscimento, l’ammissione dei torti commessi e non solo il ricordo di quelli subiti.