Il Parlamento latita su tanti temi importanti che toccano la vita delle persone, dal fine vita all’adozione dei figli per le coppie omosessuali, al punto che l’inerzia colpevole del legislatore ha provocato la supplenza delle assemblee regionali e il variegato e contraddittorio intervento dei sindaci sugli uffici dell’anagrafe dei comuni e da novembre del 2003 è bloccato sulla scelta del giudice mancante della Corte Costituzionale. A prevalere è la logica della grande abbuffata programmata da Giorgia Meloni e poco importa se il rischio è la rottura degli equilibri democratici e l’ulteriore venir meno della fiducia dei cittadini verso la politica, i suoi rappresentanti e le stesse istituzioni. La bulimia del potere della Presidente del Consiglio e della sua maggioranza prevede come unica strategia possibile l’occupazione scientifica di ogni scranno di potere, posizionandovi i propri amici secondo una logica di fedeltà personale che nulla ha a che fare con una corretta idea della politica.
L’ennesima fumata nera per l’elezione del giudice della Corte Costituzionale di qualche giorno fa è paradigmatica del prevalere della logica predatoria e al contempo rappresenta un vulnus gravissimo inferto alla nostra democrazia, in quanto ad essere coinvolto è un organo di garanzia, fondamentale per l’equilibrio funzionale delle istituzioni democratiche, così come disegnato nella Costituzione della Repubblica.
La responsabilità della situazione di stallo è ascrivibile a Giorgia Meloni, la quale non appare per nulla interessata ad aprire un confronto in Parlamento per arrivare ad una scelta condivisa e rincorre caparbiamente la strada della forzatura, della rottura della più che ragionevole convenzione tra le forze politiche di una suddivisione per aree culturali e politiche dei componenti della Corte Costituzionale, cosa ben diversa dalla spartizione partitocratica delle poltrone. L’obiettivo della premier è imporre un monopolio di indirizzo capace di cambiare la natura stessa della Consulta mediante la nomina di giudici proni al nuovo potere e senza autonomia.
In passato Giorgia Meloni si è a più riprese definita una underdog, una perdente, ma ora che si ritrova dall’altra parte, ad essere cioè diventata una top dog, dimentica che non è più la ragazza che ha passato la gioventù tra la Garbatella e Colle Oppio ed è diventata la donna più potente d’Italia. Davvero singolare poi che abbia definito infami i suoi “camerati”, quei parlamentari che lei stessa ha scelto uno per uno sulla base di una logica di strettissima fedeltà personale, che le hanno impedito il blitz che avrebbe dovuto portare all’elezione del suo consigliere giuridico a Palazzo Chigi alla Corte Costituzionale.
La Presidente del Consiglio vuole fare la storia, come ha pomposamente affermato in una riunione del suo partito qualche mese fa. Il problema è che non ha la stoffa della statista e pensa solo a non fare prigionieri a qualunque costo, infischiandosene della necessità di garantire il rispetto del pluralismo e gli indispensabili equilibri e contrappesi istituzionali. In questo frangente ha dimostrato di possedere una grande spregiudicatezza ma anche di essere estremamente debole. Al piglio indomito da capopopolo ha fatto da contrappeso una totale mancanza di visione politica e di consapevolezza del proprio ruolo, di non essere più soltanto una capopartito e di ricoprire una funzione di rappresentanza dell’intero Paese, di quanti l’hanno votata e di quanti invece stanno politicamente dall’altra parte.
La sua è stata una duplice forzatura: nel merito candidando il suo attuale consigliere giuridico, Francesco Saverio Marini, giurista di valore che però ha il limite di aver contribuito a scrivere la riforma del premierato su cui in futuro dovrà pronunciarsi la stessa Corte Costituzionale, e nel metodo tentando un colpo di mano e a sorpresa, non riuscito grazie alla fuga di notizie dalle famigerate chat dei gruppi parlamentari della sua stessa maggioranza. Resasi conto di essere finita in un vicolo cieco e di non avere i numeri per andare avanti, ha imposto di votare scheda bianca alla sua maggioranza per non bruciare Marini, una scelta rivelatasi un ripiego assai poco onorevole, una toppa peggiore del buco.
L’accusa rivolta all’opposizione di fare “propaganda” sulla Corte Costituzionale è insensata e politicamente ridicola, come l’aver agitato, ancora una volta, il fantasma dei complotti, delle talpe e delle spie che mettono i bastoni fra le ruote del governo. In definitiva il risultato per la Presidente del Consiglio è stato una sconfitta politica secca e senza sconti, mentre per il centrosinistra si è trattato della prima autentica vittoria, che lascerà un segno sul governo e di cui va dato pieno merito a Elly Schlein. La scelta di non partecipare al voto delle minoranze non era affatto scontata e il PD ha rischiato di restare isolato, come era accaduto qualche giorno prima per l’elezione del Consiglio di Amministrazione della RAI. Ad ogni buon conto il calcolo di Giorgia Meloni di dividere le opposizioni e di lucrare qualche appoggio sottobanco si è rivelato errato. Il centrosinistra si è ritrovato sulla stessa linea, si è mosso come una falange macedone e anche di questo il merito è a ben vedere di Giorgia Meloni, che ha attaccato a testa bassa ed ha subito un clamoroso gol in contropiede.
Le scelte di garanzia, particolarmente poi quelle così delicate, si fanno dialogando e confrontandosi con chi sta dall’altra parte, senza impuntarsi e percorrendo la strada della condivisione.
Alcuni segnali lasciano però intendere che alla Presidente del Consiglio e alla sua maggioranza la lezione non è servita a nulla.