Politica è linguaggio, o meglio scelta tra linguaggi differenti. Le parole non sono suoni vuoti, ma posseggono significati immediati e ulteriori, svelano identità e valori, raccontano idee e progettualità.
In Italia la lingua della politica è molto cambiata e se in passato suonava spesso astrusa, compassata e perfino settoriale, al punto da infrangere le regole della geometria, basti pensare all’espressione coniata da Aldo Moro delle convergenze parallele, in questi ultimi anni si caratterizza per essere volgare e schietta, diretta e approssimativa. Il livello stilistico del linguaggio politico è sceso a quello medio-basso della lingua quotidiana. Segnale indiscutibile di questo livellamento verso il basso è la consolidata abitudine di chiamare i leader col nome proprio, un approccio che racconta non soltanto familiarità e vicinanza, ma assai spesso un atteggiamento di devozione e sudditanza.
Il mutamento intervenuto si manifesta poi sia nel lessico, con il ricorso a parole basse e volgari, sia nella sintassi con il ricorso a frasi con costrutti semplificati, nucleari, nel mutamento del significato di talune parole e nell’introduzione di nuove.
La mediocrità del linguaggio è indice rivelatore di un abbassamento generale del livello culturale del nostro Paese, che inevitabilmente ha una ricaduta anche nel campo della qualità della politica. È bene precisare che la valutazione negativa riguarda l’approssimazione e la banalizzazione dei contenuti e dello stile del discorso politico e non la schiettezza, che rappresenta un valore, da non confondere però con la volgarità, aspetto questo che sempre più spesso caratterizza purtroppo il dibattito quotidiano in televisione e sui social. Parimenti occorre evidenziare che bello stile non significa rapporto privilegiato con la verità e i valori etici, tanto che non c’è nulla che possa essere detto meglio del falso, ma il linguaggio della politica, oltre all’efficacia, dovrebbe badare alla sua proprietà e urbanità.
Insomma non è questione di buone maniere, di formalismo e tantomeno di preferenza per i discorsi involuti, le frasi incomprensibili e la vuota retorica. Il tema è politico. L’abbassamento del linguaggio politico non è come pretendono i populisti un modo per parlare, comportarsi, essere come il popolo, perché non è affatto vero che approssimazione, arroganza, scontro siano più popolari di serietà, rispetto e confronto. Affrontare i problemi e dare risposte richiedono intelligenza e competenza e non inventarsi nemici immaginari, spingere con un certo linguaggio ad essere contro, a riconoscersi in un’identità che si contrappone ad altre, a dividere la società in aree inconciliabili, a separarne una parte, più o meno grande e non coincidente con l’insieme, e ad esaltarla come il vero popolo contro le élites dirigenti, gli immigrati, l’avversario politico, chi usa parole per comunicare e non per inquinare. Tanto più che i nemici cambiano a seconda dei contesti e delle fasi storiche e conta solo che ci sia sempre qualcuno contro cui scagliarsi.
Il ricorso a questo tipo di linguaggio poi non è mai innocuo e innocente, ma possiede sempre un legame con la violenza. Ciò non significa che quanti lo usano compiono atti di violenza, ma di certo provocano lo scontro, teorizzando la superiorità dell’uno sull’altro e perseguendo l’esclusione di questo o di quella. Pur autodefinendosi politica, in realtà questa è la forma più esasperata di antipolitica, che logora la democrazia, la svuota di valori e di risorse, non va mai oltre la propaganda, non costruisce alternative o cambia le cose e alimenta potentemente l’astensionismo.
In un quadro purtroppo così desolante non suscita meraviglia Augusta Montaruli, esponente di Fratelli d’Italia, condannata con sentenza definitiva per aver acquistato con i fondi regionali, quando era consigliere regionale del Piemonte, borse, Swarovski, libri e gadget sexy, che abbaia in diretta tv. La scena del bau bau sicuramente è entrata ringhiando nella storia della politica e della televisione. Potremmo sorriderne, considerarla solo un teatrino di bassa lega, ma francamente significherebbe non dare il giusto rilievo al livello di degrado che rappresenta. Ha ragione Aldo Grasso, il critico del Corriere della Sera, quando scrive: “Il grado zero del talk show, ovvero quando la parola si umilia per lasciare posto a borborigmi lessicali, a fedifraghe alleanze gergali, a oscillazioni fra la bipedità dell’uomo e della donna e la quadrupedità del cane. Prima o poi doveva succedere, è successo…”. E poi prosegue: “Ora, è vero che il Parlamento italiano è diventata la più fervente palestra dell’insulto, l’università dell’ingiuria, la salda tradizione della volgarità, ma al latrare, all’ululare, al ringhiare non eravamo ancora giunti. È la nullificazione della parola e, con essa, del pensiero, è la pienezza del declino”.
La democrazia è oggi un bene in pericolo che richiede vigilanza e impegno attivo per impedirne lo svuotamento, l’annichilimento e la riduzione a mero formalismo senza anima. Occorre restituire alla politica dignità e valore, profondità di pensiero e serietà di impegno.