Se la logica che guida le relazioni tra le nazioni è l’assoggettamento, sia pure nella forma subdola del condizionamento e della dipendenza economica, se la titolarità del potere si dispiega in un suo esercizio svincolato da limiti legali, etici e morali, se l’uso della forza prevale su ragionevolezza e dialogo e si manifesta come arrogante presunzione di perseguire qualsiasi obiettivo, se il richiamo ai diritti e la tutela degli interessi diventano la scusante per la prevaricazione, lo sbocco inevitabile è lo scontro nelle sue più varie esplicitazioni, fino al conflitto armato.
Le guerre che insanguinano molteplici aree del mondo e soprattutto il Medio Oriente non sono il risultato di casualità, di una contrapposizione legata a logiche localistiche, ma sono ciascuna manifestazione di una conflittualità unica e generale che ha come protagoniste le grandi potenze economiche e militari, che si muovono nei diversi scenari come su una grande scacchiera e ad ogni azione dell’avversario corrisponde una reazione, avente come unica finalità la conquista e il mantenimento di aree sulle quali affermare l’influenza politica e l’egemonia economica e garantirsi l’accesso, possibilmente illimitato e a basso costo, alle materie prime e alle risorse energetiche. In altri termini siamo in presenza di un conflitto generale, anche se formalmente ed esplicitamente non dichiarato ed avente dislocazione in vari punti del pianeta tra loro distanti, che Papa Francesco con una espressione particolarmente felice, calzante, efficace ed incisiva ha definito una guerra mondiale a pezzi.
Questi anni sono stati costellati da massacri, violenze e sofferenze inaudite di cui sono stati vittime principalmente i civili, donne, bambini e anziani. Quanto accaduto e ancora sta accadendo in Siria è sotto i nostri occhi con tutta la sua sconvolgente drammaticità, ma non sembra aver mosso le coscienze dei responsabili delle nazioni ad una riconsiderazione delle strategie politiche, sui cui altari continuano a sacrificare interi popoli ed anche a rischiare un conflitto globale e generalizzato.
Il 2020 comincia esattamente da dove era crudelmente finito il 2019. L’uccisione da parte degli USA per mezzo di droni, cioè di aerei senza pilota, a Baghdad del generale iraniano Qassem Suleimani, comandante dei Guardiani della rivoluzione e soprattutto uomo di fiducia ed emissario dell’ayatollah Alì Khamenei, la guida suprema dell’Iran, in tutte le aree di crisi in cui la Repubblica islamica è coinvolta, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen, apre scenari assolutamente rischiosi per la stabilità e la pace mondiale. Suleimani era un personaggio di primo piano del regime iraniano, un uomo potentissimo. Rivoluzionario della prima ora, aveva combattuto fin da giovanissimo nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein e possedeva esperienza e ricopriva un ruolo che lo rendeva quasi insostituibile. Indiscutibilmente era intelligente ed estremamente pericoloso, artefice ed interprete di una strategia destabilizzante e finalizzata a far acquisire una funzione egemonica al suo paese, l’Iran, all’interno di un’area tanto frammentata politicamente e culturalmente e funestata da conflitti interminabili, quanto ricca di materie prime e di conseguenza estremamente appetibile. Sicuramente si era macchiato di crimini orrendi e detestabili in nome del perseguimento di quegli interessi che guidavano ogni sua decisione.
Il ricorso all’assassinio politico è piuttosto ricorrente nella storia e viene compiuto non solo dai gruppi rivoluzionari e sovversivi, ma frequentemente dagli stessi stati, anche dalle nostre democrazie. Viene considerato una soluzione estrema, cui ricorrere quando non ne sono praticabili altre. Nessuno tra quanti in passato vi hanno fatto ricorso, compreso Barack Obama che ordinò l’uccisione di Osama Bin Laden, ha mai rivendicato l’assassinio del nemico politico come ha fatto Donald Trump, con la spensieratezza di chi ne parla come della vittoria della propria squadra del cuore.
“E’ la mossa più rischiosa compiuta dall’America in Medio Oriente dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003” scrive il New York Times, analizzando e giudicando la scelta di Donald Trump. La motivazione per giustificare l’uccisione addotta dal Pentagono che il generale iraniano stesse progettando attacchi contro diplomatici e militari USA in Iraq o quella portata sempre dall’amministrazione americana che rappresenta la risposta al tentativo di assalto dei miliziani sciiti di qualche giorno fa all’ambasciata americana a Baghdad, appaiono palesemente inconsistenti.
La verità è che l’Iran da mesi stava sfidando gli USA e cercava di minarne ruolo e credibilità in Medio Oriente, come risposta al deterioramento programmato delle relazioni conseguente alla scelta di Trump di stracciare l’accordo voluto dal suo predecessore Barack Obama, che prevedeva la fine dell’embargo in cambio del congelamento del processo diretto a dotarsi di armi nucleari da parte del regime iraniano.
Numerosi commentatori sostengono che questo omicidio rappresenta a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra degli USA all’Iran, ultimo atto di un’ostilità che ormai li contrappone da decenni e che negli ultimi mesi ha raggiunto punte sempre più preoccupanti con una conflittualità non solo verbale, con provocazioni e scontri per interposta milizia, cioè tra gruppi armati aventi come referenti gli uni o gli altri.
Ritengo che il punto vero della questione sia la scarsa propensione alla ponderazione da parte di Donald Trump, il quale agisce per lo più in modo istintivo, giudizio questo che accomuna numerosi esperti di politica internazionale, spesso senza rendersi conto che il suo avventurismo potrebbe avere effetti devastanti a livello internazionale ed esporci al rischio di un conflitto mondiale, combattuto con armi micidiali e di distruzione totale, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’umanità.
La speranza è che prevalga la ragionevolezza e si intraprendano percorsi di dialogo e reciproca comprensione. La pace, fondata sulla giustizia, sullo sviluppo equo e solidale, sul rispetto reciproco e dell’ambiente, sul contemperamento degli interessi dei popoli, è possibile partendo dal ripudio della violenza, dal disarmo non solo degli arsenali ma soprattutto dei cuori e delle menti, sulla consapevolezza che solo lavorando fianco a fianco e perseguendo obiettivi comuni avremo un futuro.