Roma.
Una mattina di metà dicembre, grigia e tiepida come solo questo tempo pazzo sa regalarci. Non piove per fortuna. Giove Pluvio ha deciso di concedere una tregua a noi umani. Piazzale Clodio è il solito formicaio, un delirio di traffico. Normalità.
Armato di borsa e toga, percorro a piedi il tratto di strada che mi divide dalla cittadella giudiziaria. L’udienza innanzi alla Corte d’Appello Penale è fissata alle nove. È presto, ho tutto il tempo ma voglio arrivare con calma.
La borsa è pesante e non solo per il fascicolo voluminoso che mi porto dietro. Ho appellato una sentenza che ha inflitto una pena dura al mio assistito. Penso sia sbagliata e ingiusta. Sono il suo difensore, fa parte del mio lavoro tentare di smontare le accuse e mirare ad un risultato più favorevole. Tuttavia la realtà a volte è più complicata. La sentenza è stata emessa al termine di un processo di primo grado celebrato al passo di carica, con una fretta incomprensibile, stando ai tempi soliti della giustizia e con la compressione del diritto di difesa.
Un esempio è illuminante.
Udienza di primo grado. Sentito l’ultimo testimone, il Presidente del collegio invita pubblico ministero e difesa a concludere visto che non ci sono richieste di ulteriori prove. Chiedo la parola. Il Presidente mi rivolge un’occhiata tra l’infastidito e l’annoiato. La difesa, a suo tempo, ha chiesto ammettersi altre prove su cui il collegio si è riservato di decidere, in particolare l’esame comparativo tra il DNA trovato su un oggetto usato per compiere il reato e quello dell’imputato, esame tralasciato durante le indagini preliminari, che potrebbe escluderne la colpevolezza. La replica è disarmante: - Perché agli atti del processo risulta rinvenuto del DNA?-. Il collegio si ritira in camera di consiglio. Dieci minuti e la decisione sulla richiesta è presa: si tratta di un riscontro irrilevante per stabilire se l’imputato è colpevole o innocente.
L’esame è costoso e la macchina della giustizia non ha intenzione di spendere risorse per questa vicenda che riguarda un signor nessuno.
La Corte d’Appello Penale è ospitata in una struttura moderna. Attraverso il varco riservato agli avvocati, mostro il tesserino all’addetto alla sicurezza e mi addentro nel ventre del palazzo. L’aula d’udienza è al piano terra, priva di finestre ma ampia e ben illuminata, le pareti sono rivestite di legno chiaro e possiede una certa solennità. Gli scranni dei giudici e del cancelliere sono vuoti. Prendo posto tra i banchi riservati alla difesa ed aspetto.
Il tempo scorre lento. In aula ci sono alcuni colleghi. Suona la campanella e l’udienza ha inizio. I tre giudici e il cancelliere prendono posto. Il Presidente del collegio è un magistrato sulla sessantina, un toscano simpatico e dai modi diretti. Vengono chiamati i procedimenti a ruolo: una lunga catena di rinvii per motivi tecnici. Giunge il mio turno. Il Presidente fa presente che anche per la mia causa c’è un problema. Il Procuratore Generale gli ha comunicato che gli è stata trasmessa una copia parziale dell’atto d’appello. Il personale di cancelleria ha fotocopiato solo le pagine dispari e pertanto non è in grado di capire quali siano esattamente i motivi di impugnazione della sentenza. È necessario un rinvio. Aggiunge di aver letto l’atto d’appello: le questioni sollevate richiedono un vaglio attento del pubblico ministero. Se si fosse trattato del solito atto dilatorio, gli avrebbe dato lui stesso una copia e, dopo una breve sospensione, avremmo potuto trattare la causa, ma non è questo il caso.
Il Presidente del collegio abbassa lo sguardo sulle carte davanti a sé per qualche secondo e poi dice: – Sezze….quindi Latina -. – Sì, Presidente. Foro di Latina -. Inizia a raccontare la sua esperienza di magistrato prima di approdare, poco tempo fa, a Roma. Esprime giudizi duri sul funzionamento della giustizia. Con il Tribunale di Latina è impietoso, lo definisce il peggiore d’Italia, nonostante gli sforzi di questi anni. La storia poi dell’appello stampato solo nelle pagine dispari non la digerisce. Spiega di essere costretto a fotocopiarsi da solo gli atti dei processi e di dover comprare la carta di tasca propria perché gli uffici non vengono riforniti. – Tutto questo è normale?- domanda. – No, Presidente – intervengo – è umiliante per voi magistrati, per noi avvocati e per i cittadini che aspettano giustizia -. – Ha detto bene avvocato, è umiliante -. Mi congeda.
Una giornata di ordinaria giustizia.
L’appello fotocopiato solo nelle pagine dispari è emblematico, la mancanza di carta per stampare gli atti processuali è indegna di un paese civile. Trovo ancor più avvilente, però, sentir affermare che il problema dei processi è la prescrizione non la macchina della giustizia che non funziona, i magistrati e il personale addetto sotto organico, che i problemi si risolvono limitando i diritti, imprimendo un marchio di perennità alle cause, che la soluzione è trasformare le indagini in un tunnel senza uscita, in un macigno che grava a vita sulle persone, il tutto peraltro in contrasto con la Costituzione. Si scarica la colpa della durata dei processi sugli avvocati quando il 53% si prescrive prima del rinvio a giudizio, il 22% durante i dibattimenti di primo grado e non per l’attività dei difensori. Cesare Beccaria diceva che la giustizia deve essere certa, celere e giusta. Un processo che non accerta rapidamente chi è colpevole e chi è innocente, che non risarcisce le vittime, che arriva al risultato dopo dieci, venti, trenta anni è negazione della giustizia. Sentir dire poi dal Ministro di Grazia e Giustizia che un reato è doloso se non si dimostra che è colposo, consentimi è una vergogna. A chi ha fatto notare l’abnormità giuridica di tale affermazione è stato risposto che il ministro è un civilista, non un penalista. Peccato che per laurearsi in giurisprudenza bisogna superare anche l’esame di diritto penale.
Dettagli evidentemente….