La Costituzione all’art. 1 dichiara il lavoro valore fondante della Repubblica e all’art. 4 stabilisce che è dovere di ogni cittadino “svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Troppo spesso però si tralascia che l’art. 36 della Costituzione sancisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La tutela e la promozione dei diritti fondamentali di ogni persona passano attraverso l’applicazione di tutti i principi costituzionali, non solo di alcuni o secondo le convenienze politiche. L’affermazione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per la quale il Reddito di Cittadinanza non può sostituirsi al lavoro è condivisibile ma in assenza di politiche che promuovano la buona occupazione e garantiscano livelli retributivi adeguati, i lavoratori rischiano di essere risucchiati nel vortice oscuro della povertà e della marginalizzazione.
Nel nostro Paese il 30% dei lavoratori dipendenti del settore privato percepisce un salario annuo inferiore a 12 mila euro. Il tasso di disoccupazione tra i giovani, al netto di quanti il lavoro nemmeno lo cercano, supera il 22%. Il 12% dei lavoratori è in condizioni di povertà a causa dei salari totalmente inadeguati a soddisfare le esigenze primarie personali e delle loro famiglie. Secondo stime attendibili sono 3 milioni i lavoratori irregolari. Il futuro, per quanti rientrano in fasce reddituali così basse, si prospetta tutt’altro che roseo. Il Decreto Lavoro, approvato il 1° maggio dal Governo, al netto del polverone mediatico che lo ha accompagnato, non va nella direzione giusta e rischia di aggravare ulteriormente la condizione dei lavoratori più poveri.
La mancata introduzione del salario minimo è stata accompagnata da un’ulteriore liberalizzazione dei contratti a tempo determinato (divenuti una sorta di selva in cui è impossibile orientarsi e trovare il bandolo della matassa, a tutto discapito dei lavoratori) e dall’estensione dei voucher, guarda caso proprio nei settori dove il lavoro povero è diffusissimo. Il ricorso ai voucher, reso possibile con la legge di bilancio fino a 10 mila euro, con il decreto arriva ora a 15 mila euro, divenendo competitivo con le retribuzioni più basse previste da alcuni contratti precari, che quantomeno però sono associati ad una tutela minima dei diritti dei lavoratori.
La cancellazione del Reddito di Cittadinanza è sbagliata sia sotto il profilo sociale che economico. Si tratta di una misura da tempo esistente in tutti i Paesi europei e il Consiglio Europeo ha approvato una raccomandazione in favore dell’introduzione di adeguati sostegni alle fasce povere mediante un reddito minimo garantito. La scelta del governo avrà l’effetto di peggiorare la situazione di tante famiglie povere. Le forme di sostegno al reddito fungono da salario di riserva: se dignitose, favoriscono il miglioramento delle condizioni di lavoro in quanto rafforzano il potere contrattuale dei lavoratori e consentono di rifiutare contratti non dignitosi, se indecenti o assenti invece spingono i lavoratori ad accettare condizioni non dignitose.
Un intervento per eliminare le numerose distorsioni era necessario, ma il Reddito di Cittadinanza aveva il pregio di essere una misura universale rivolta a tutti i poveri. La soluzione ora adottata differenzia tra meritevoli, quanti hanno minori o non autosufficienti a carico, e non meritevoli che non li hanno, i quali vengono definiti poveri occupabili. Questi ultimi avranno diritto a un reddito mensile di 350 euro e un supporto per la formazione e il lavoro, senza alcun sostegno per la casa, per la durata massima di 12 mesi. I meritevoli riceveranno un trasferimento più elevato, costituito da un assegno di inclusione e da un sussidio per la casa, ma incomprensibilmente non viene presa in considerazione la presenza di figli maggiorenni abili al lavoro. Tanto gli occupabili quanto chi appartiene alle famiglie meritevoli, in età da lavoro e attivabili, dovranno sottoscrivere un patto personalizzato per il lavoro entro 60 giorni, seguire tutti i percorsi di formazione, presentarsi ogni 90 giorni al Centro per l’Impiego per aggiornare la propria posizione, accettare qualsiasi proposta di lavoro in ogni parte del Paese, a condizione che sia a tempo indeterminato, non importa se a tempo pieno o parziale e basta che non sia inferiore al 60% dell’orario a tempo pieno, a nulla rilevando se consenta o meno lo spostamento di tutta l’eventuale famiglia. Il mancato rispetto di queste regole, anche da parte di un solo componente, comporta la perdita del reddito per l’intero nucleo familiare. Nessuna risorsa aggiuntiva è stata prevista per svolgimento degli accertamenti e l’attivazione dei servizi da parte dei Centri per l’Impiego, dovendosi secondo il governo attingere alle risorse esistenti. La valutazione di occupabilità viene fatta solo in base alla composizione familiare, non tiene conto della distanza dal mercato del lavoro ed è ritenuto occupabile chi non ha a carico minori, disabili o comunque non autosufficienti ed ha meno di 60 anni. L’irrealismo della previsione emerge ancor più se si considera che dalle verifiche effettuate solo il 27% dei percettori del Reddito di Cittadinanza è vicino al mondo del lavoro, il 13% ha avuto una esperienza lavorativa conclusa nell’ultimo anno, a nulla rilevando il grado di istruzione, e la qualifica di occupabilità non considera che nella fascia di età dai 18 ai 59 anni possano esserci persone fragili e vulnerabili, bisognose più di supporti psico-sociali che di percorsi di attivazione al lavoro: si pensi ai senza fissa dimora, a quanti hanno dipendenze o patologie psichiatriche non diagnosticate.
L’introduzione del salario minimo, esclusa dalla maggioranza, favorirebbe la concorrenza e le imprese sane, che investono in ricerca, in sistemi e prodotti innovativi. La mancanza invece consente alle imprese meno efficienti e produttive di fissare le retribuzioni al di sotto dei livelli concorrenziali e di alterare il mercato, sopravvivendo a discapito di quelle più sane e in alcuni casi più oneste. La riduzione della loro presa sul mercato del lavoro consentirebbe di aumentare non solo i salari, ma soprattutto l’occupazione e la produttività con un beneficio generale per tutta la collettività che avrebbe maggiori ricchezze da ridistribuire.