Il cinema è per molti svago, sogno collettivo, un fuggire contrarietà e ansie riparando nell’immaginario. Tuttavia se pensato e realizzato come espressione artistica, non è semplice evasione. Il cinema di qualità, d’autore sprona alla riflessione, offre chiavi interpretative del vissuto e del contesto sociale in cui siamo immersi. Certamente è più facile guardare senza riflettere, fruire di un vedere che afferra e coinvolge superficialmente, anziché sforzarsi di leggere le immagini, di cogliere il significato che l’autore, mediante la complessità di un’opera fatta di figure, luoghi, luci, ombre, parole, silenzi e musica, vuole comunicare.
Favolacce, film di Damiano e Fabio D’Innocenzo, sperimentando un linguaggio audiovisivo estremo ed originale e giocando sui toni della favola nera, sull’emersione e immersione nel fantastico, ci conduce in un viaggio senza filtri nelle dinamiche dell’incomunicabilità relazionale e dell’incapacità genitoriale, dove rabbia e disperazione, celate dietro una fragile cortina di perbenismo e normalità, sono pronte in ogni momento ad esplodere.
“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”. È l’incipit del film. Versi strampalati appartenenti a un diario intimo, scritto con una biro verde e ritrovato con numerose pagine strappate nella spazzatura, scanditi da una voce adulta sebbene, come emergerà, appartenga a una bambina di 11 o 12 anni.
Spinaceto, quartiere di Roma Sud. Famiglie della piccola e media borghesia abitano villette mono familiari ben curate, si conoscono e si frequentano. Cene, barbecue, piscine gonfiabili. I figli sono educati e ben vestiti. Una serena normalità in cui però i conti non tornano. Una famiglia ascolta impassibile dalla televisione la notizia che una coppia ha ucciso il proprio neonato prima di suicidarsi. Vilma è incinta, fuma e davanti casa si prostituisce. La tavolata tra amici è avvolta in un silenzio irreale. La lettura delle pagelle scolastiche perfette trasforma i figli in trofei da esibire. Fisicità tese, dialoghi inconsistenti, smorfie, strappi umorali. Famiglie sospese in un limbo esistenziale insoddisfacente, fragile e artefatta apparenza cui esse stesse non credono. Le madri sono evanescenti, concentrate su loro stesse, incapaci di amare, di capire il valore delle cose, di avere un ruolo nella vita dei figli. Gli uomini dirigono tutto, si trattano con educazione e rispetto quando sono tra loro e alle spalle sparlano l’uno dell’altro, condividono sottovoce fantasie da stupratori, velleità machiste e sfogano senza remore i propri istinti sessuali e la propria brutalità, rivelando una immaturità intellettuale e caratteriale spaventosa. Bruno Placido si lamenta per ogni cosa, perfino delle pagelle perfette dei figli, distrugge la piscina gonfiabile montata in giardino per non ostentare il benessere, per paura di distinguersi dal piattume in cui è rintanato, picchia i figli violentemente in un parcheggio. Amelio, padre di Geremia, è la figura più autentica, tratta alla pari il figlio con tutti i pro e i contro, a differenza degli altri vive in campagna, si masturba all’aria aperta, non si nasconde dietro una facciata pulita. A modo suo si prende cura del figlio, è l’unico a intuirne il malessere, pur non riuscendo a capirlo in pieno e ad affrontarlo. Le mura di casa sono una prigione soffocante, luogo di continue aggressioni verbali, fisiche e psicologiche.
Finisce l’anno scolastico, inizia l’estate. Gli insegnanti chiedono ai ragazzi di leggere Il fantasma di Canterville di Oscar Wilde. Il protagonista, Sir Simon, un fantasma si aggira nel suo castello senza riuscire a spaventare i nuovi proprietari americani e non può raggiungere l’Aldilà a meno che qualcuno con l’animo puro non versi lacrime di pietà per lui. I ragazzi sono anch’essi fantasmi, si aggirano e cercano di comunicare agli adulti il loro disagio, senza trovare attenzione e ascolto. La loro felicità si riduce a piccoli momenti, singoli gesti, regali ricevuti. Vivono in un limbo: non sono morti e neppure vivi. Stanchi di tale condizione cercano di uscirne, a costo di morire. Fabbricano ognuno una bomba che tengono sulla scrivania della cameretta e quasi ci riescono, se non fosse per la cugina di Geremia che scopre tutto. I genitori non se ne sono resi conto. Il mal di vivere li spinge a portare a termine il piano, a suicidarsi tutti insieme con il malatione, un antiparassitario usato da Viola, una dei ragazzi, contro i pidocchi che si è preso e per cui è stata rapata a zero. Inquietante è il parallelo tra l’antiparassitario e i bambini e ancor più la reazione di Bruno Placido che, quando la mattina scopre i cadaveri dei figli, non si prende la responsabilità nemmeno di svegliare la moglie. Torna a letto, finge di dormire, la lascia sola con il suo dolore.
Il film si conclude con Vilma e il suo ragazzo ad una stazione di servizio. Sono andati via dal quartiere per iniziare una nuova vita insieme con la loro bambina, lontano dai genitori. Tuttavia nel loro DNA c’è qualcosa dei padri e il ragazzo, quando Vilma confonde il pianto della figlia con il latrare di un cane, dice: “Già è cagna”. Poi inizia a fantasticare in modo infantile sul loro futuro, del quale però la figlia non è parte, è un incidente di percorso, un peso e un intralcio.
Favolacce è un film antinarrativo, allucinato e insieme un ritratto realistico e impietoso di un quotidiano senza senso, di esistenze trascinate in periferie alienanti, simbolo di tutto quello da cui fuggire. I ragazzi vivono un rapporto rassegnato con genitori senza qualità, frustrati, imprigionati in un eterno presente, incapaci di amare, che vorrebbero plasmarli a propria immagine e non si accorgono di essere dei mostri. L’incomunicabilità non è solo una difficoltà generazionale, ma è conseguente all’assenza di contenuti e valori, ad una povertà che non è materiale, dato che hanno tutto quanto desiderano. Morire per i ragazzi significa sottrarsi all’atrocità di questa mediocrità insanabile, è rifiutare gli adulti di cui sperimentano mancanza di cure, fobie, perversioni e continua sordità alle loro disperate grida di aiuto.
Favolacce è un film disturbante, spietato e raggelante, un interrogativo sul marcio delle nostre vite, sul disagio esistenziale che troppo spesso fingiamo di non vedere, sull’egoismo che strumentalizza, deforma, annichilisce e distrugge simbolicamente e realmente gli affetti, anche i più intimi come quelli tra genitori e figli, sull’incapacità di ascoltare e dialogare, di ricercare e trovare un significato non contingente al vivere.
Soprattutto Favolacce è una opportunità da cogliere per riflettere.