Il rapporto tra cittadini, partiti e Stato è incrinato da tempo. Forze politiche autoreferenziali, disconnesse dalla società e incapaci di interpretare i bisogni delle persone faticano ad assolvere alla funzione di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come sancito dall’art. 49 della Costituzione della Repubblica. Tuttavia in questi mesi la crisi della rappresentanza ha raggiunto livelli sistemici e non è più rinviabile una svolta radicale. I partiti, protagonisti dell’attuale scena politica, rischiano non solo di non essere capaci di governare in futuro il paese, di farsi carico delle sfide culturali, sociali, economiche ed ambientali che abbiamo dinanzi, ma soprattutto di essere condannati all’irrilevanza e finanche all’estinzione.
Una democrazia senza partiti, intesi come luoghi di aggregazione intorno a idealità e progettualità, non è pensabile e il pericolo della riduzione degli spazi della partecipazione, del prevalere di poteri forti e interessi condizionanti, di una involuzione autoritaria del sistema istituzionale è tutt’altro che impossibile. Uno dei problemi più gravi è l’inadeguatezza e la polverizzazione della rappresentanza, unito alla sostanziale rinuncia a ricercare il bene comune, sostituito dalla tutela di interessi egoistici e di gruppi ristretti, oltre ad un crescente estremismo introiettato nella nostra democrazia dall’affermazione dei movimenti populisti.
La criticità in cui versa il nostro sistema politico è confermata proprio dall’ascesa di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio, che non è figlia semplicemente della mancanza di una manciata di deputati e senatori per sostenere un terzo governo guidato da Giuseppe Conte, quanto piuttosto del vuoto politico e culturale di tutte le forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, incapaci di una visione progettuale e programmatica, di un’idea di sviluppo sociale ed economico, di assumere posizioni chiare e riconoscibili sul piano della politica europea e internazionale e non ultimo di programmare in maniera adeguata la fase di ripartenza dopo la crisi pandemica.
La nomina di Mario Draghi non ha determinato una sospensione della politica, piuttosto ne ha colmato il vuoto. Tale esperienza di governo appare poco rassicurante, perché stravolge ed esautora l’idea stessa della democrazia e condanna all’irrilevanza le scelte compiute dai cittadini in sede elettorale. L’assunto che la nascita dell’attuale governo sarebbe conseguenza di eventi storici eccezionali, del combinato disposto della pandemia e della conseguente crisi economica, è palesemente debole e non veritiero. Negli ultimi decenni in Italia i governi tecnici sono divenuti una prassi ricorrente, finalizzata a fronteggiare l’avvitamento autoreferenziale delle forze politiche e dei leader che le rappresentano e dimostrano l’incapacità delle une e degli altri di trovare convergenze attraverso un confronto libero, un contemperamento responsabile e una mediazione alta tra diverse istanze e posizioni. A preoccupare è l’abdicazione dalla propria funzione della politica, la sospensione della normale dialettica democratica, il messaggio pericoloso per cui il governo può tranquillamente muoversi in un limbo indistinto, essere scevro da qualsiasi richiamo ideale, a partire dalle categorie di destra e sinistra, il non svolgere il ruolo fondamentale di individuare le soluzioni da dare ai problemi.
In discussione non sono la caratura tecnica e culturale, la credibilità interna ed internazionale di Mario Draghi, le scelte compiute, talune condivisibili, altre meno o addirittura per nulla e tantomeno la legittimità del suo governo sotto il profilo costituzionale. Al riguardo è bene ribadire, smentendo una vulgata diffusa in questi anni priva di fondamento giuridico, che in Italia a Costituzione vigente non è prevista alcuna investitura elettorale diretta da parte dei cittadini del capo del governo e ad essere votati sono soltanto i membri del Parlamento. È il Presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle due Camere e i rappresentanti dei gruppi parlamentari, che nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale per entrare nel pieno delle sue funzioni deve comunque ottenere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento.
Mario Draghi gode di ampi consensi tra i cittadini, stando ai sondaggi, per il rigore e la sobrietà con cui assolve al proprio mandato, merce rara in un panorama politico dominato da leader smaniosi solo di apparire e di rilasciare dichiarazioni su qualsiasi argomento, da un dibattito pubblico scadente. Sicuramente un po’ stucchevole è il tentativo degli esponenti di alcuni partiti di accreditarsi presso l’opinione pubblica come estimatori e sostenitori del premier. Come sempre accade quando domina la mediocrità, dagli attestati di stima alle dichiarazioni improvvide il passo è breve e si attiva una inevitabile gara al peggio. Il buon Giancarlo Giorgetti, autorevole ministro ed esponente della Lega, ha auspicato l’elezione di Mario Draghi a Presidente della Repubblica, il quale così potrebbe continuare a guidare il governo, dando vita ad un semipresidenzialismo di fatto. In altri termini verrebbe cambiata la Costituzione senza passare attraverso il normale processo di revisione. Siamo in presenza si una grave sgrammaticatura costituzionale, segno di inadeguatezza istituzionale. Non meno indigeste politicamente e costituzionalmente sono le affermazioni di quanti preconizzano la permanenza di Mario Draghi a capo del governo anche dopo l’elezione del nuovo Parlamento nel 2023. A meno che Mario Draghi non decida di candidarsi e vinca le elezioni, chi sarà il prossimo Presidente del Consiglio dipenderà dal risultato elettorale e non da scelte fatte sulla testa dei cittadini e a prescindere dal loro voto.
La verità è che un grande paese come l’Italia avrebbe necessità di una classe politica di ben altra caratura, a tutti i livelli…