“Quando Dio creò il mondo, di dieci misure di bellezza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo. Di dieci misure di sapienza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo. Di dieci misure di dolore, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo” (Detto rabbinico).
Questo detto rabbinico sintetizza la tragedia di una terra dalla bellezza struggente, uno dei crocevia più straordinari della storia, schiacciata da un pluridecennale conflitto, combattuto prima che con le armi con l’odio, veleno potentissimo instillato nel cuore di palestinesi e israeliani, che li porta non a considerarsi parte del medesimo tutto ma nemici irriducibili, immersi in una ostilità così profonda e radicata nel quotidiano che nessuno sembra più in grado di uscire dalla logica della vendetta.
La recrudescenza dello scontro armato di questi giorni, i bombardamenti israeliani e il lancio di missili da Gaza ad opera di Hamas raccontano una convergenza di interessi delle parti in conflitto, il cui obiettivo immediato è cristallizzare la situazione, da una parte ostacolando o almeno rallentando il cambio di governo in Israele conseguente al recente rinnovo del parlamento e dall’altra impedendo di svolgere le elezioni legislative e presidenziali in Cisgiordania e a Gaza, dall’esito prevedibilmente sfavorevole all’attuale dirigenza palestinese.
Sotto il profilo strategico la destra di Benjamin Netanyahu, al governo in Israele nell’ultimo decennio, mira a mantenere aperto il conflitto con Hamas per proseguire con la politica di occupazione e annessione dei territori palestinesi, assecondando gli estremisti ultraortodossi che sognano la cacciata completa degli arabi, e arrivare ad una situazione di fatto irreversibile. E questo a costo di provocare una grave frattura nella stessa società israeliana e di mettere a rischio la convivenza tra araboisraeliani ed ebrei, come dimostrano gli scontri cruenti avvenuti in diverse città ebraiche.
L’aspirazione ad una patria del popolo ebraico è radicata in una storia dolorosa. Per secoli gli ebrei sono stati perseguitati e l’antisemitismo è culminato in Europa nella indicibile tragedia dell’Olocausto: uomini, donne e bambini schiavizzati, torturati, fucilati e gassati nei campi di sterminio nazisti. Sei milioni non hanno fatto ritorno. Negare questa verità, minacciare la sicurezza interna ed esterna di Israele, riproporre i più odiosi stereotipi sugli ebrei da parte di governanti arabi e musulmani oltre ad essere abominevole, ad evocare negli israeliani la più drammatica delle memorie, rende impossibile superare il conflitto e irraggiungibile la pace nell’intera regione.
I palestinesi, musulmani e cristiani, soffrono da decenni la mancanza di una patria. In seguito alla nascita di Israele migliaia di persone sono state sradicate dalle proprie città, costrette a lasciare le proprie case, a vivere raminghe e senza diritti nei campi profughi di Cisgiordania, Gaza e dei paesi confinanti, sopportando quotidiane umiliazioni sia dagli occupanti israeliani sia dagli stessi fratelli arabi che ne strumentalizzano la causa. Tutto ciò è intollerabile, non è possibile voltare ancora le spalle alla legittima aspirazione dei palestinesi a vedersi riconosciuti patria, diritti, libertà e dignità
Due popoli, con sacrosante aspirazioni, sono inchiodati ognuno alla propria storia e per questo sono restii a qualsiasi compromesso. Tuttavia se continuiamo solo a concentrarci su ragioni e torti, che appartengono in pari misura a tutti i contendenti, su quanto divide e non unisce, a schierarci in tifoserie contrapposte, come se il diritto e la giustizia fossero appannaggio sempre e solo di alcuni, non riusciremo a cogliere la verità, a venire incontro alle legittime richieste di entrambi e a porre le condizioni per arrivare all’unico traguardo possibile: la coesistenza pacifica e sicura.
Il governo israeliano e l’Autorità Nazionale Palestinese devono comprendere che non c’è alternativa all’abbandono della violenza, della vendetta e delle rivendicazioni sterili, devono sedersi intorno ad un tavolo, guardarsi negli occhi ed avere il coraggio di farsi costruttori di pace. È interesse del popolo di Israele, è interesse del popolo di Palestina, è interesse di tutti noi, se veramente vogliamo restare umani.
I palestinesi hanno diritto ad uno stato, ma non basato sulla tirannia. L’ANP deve garantire il rispetto dei principi democratici, i diritti personali, libere elezioni, porre fine alla corruzione dilagante e impiegare le sovvenzioni economiche internazionali per lo sviluppo e il benessere dei cittadini. Hamas, che controlla la striscia di Gaza, ha preso in ostaggio il proprio popolo, lo costringe a vivere in una prigione a cielo aperto e ha trasformato quel territorio in una rampa di lancio di missili da tirare contro Israele. Se non abbandona il terrorismo, non rinuncia all’obiettivo strategico scritto nel proprio statuto di distruggere Israele e non ne riconosce il pieno diritto all’esistenza non potrà mai essere un interlocutore.
Gli israeliani devono riconoscere con i fatti il diritto all’esistenza della Palestina, mettere fine agli insediamenti abusivi e agli espropri di terre e abitazioni arabe, consentire lo sviluppo dei territori palestinesi, smetterla con le provocazioni come negare ai palestinesi di Gerusalemme est la possibilità di eleggere i propri rappresentanti nell’ANP, peraltro in violazione degli accordi di pace di Oslo, con le ritorsioni armate e gli omicidi mirati.
La tregua raggiunta è un passo positivo, ma è una soluzione precaria e temporanea. In passato ne sono state siglate molte, a cui non è seguito un impegno fattivo per mettere fine al conflitto. È tempo che la comunità internazionale, USA e Europa soprattutto, impongano una ripresa dei colloqui tra le parti per giungere rapidamente ad una pace giusta e duratura. La soluzione dei due stati, solennemente proclamata anche in numerose risoluzioni dell’ONU, apparentemente è la più adatta a soddisfare le ambizioni di entrambi i popoli, ma in realtà è difficile da realizzare per la non continuità dei territori palestinesi, per i tanti insediamenti di coloni in Cisgiordania e soprattutto per l’intreccio inestricabile che lega luoghi e persone. Una cittadinanza comune e condivisa tra i due popoli, una regione israelo-palestinese composta da comunità locali confederate che si autogovernano nel rispetto di tutte le minoranze e le identità religiose dei gruppi che ne fanno parte potrebbero essere una soluzione alternativa e probabilmente più realizzabile.
La mia è forse l’utopia di un pacifista e obiettore di coscienza, ma bisogna osare per costruire la pace.