“Quando arriva la sconfitta, accettala come un segnale che i tuoi piani non sono validi, ricostruisci i tuoi piani e salpa ancora una volta verso il tuo agognato desiderio” – Napoleon Hill.
In democrazia le sconfitte fanno parte delle regole del gioco, sono preziose, perfino salutari perché costringono, o almeno dovrebbero, le forze politiche a ripensarsi radicalmente, ad avere il coraggio di imboccare la strada del cambiamento in nome di un bene più alto, dei principi e valori a cui ci si ispira.
Se questo ragionamento vale di fronte a una qualsiasi ordinaria sconfitta, ancor di più oggi dinanzi al disastro del PD nelle elezioni politiche del 25 settembre, le quali hanno cancellato un patrimonio di appartenenze e consensi di intere fasce di cittadini e territori e impongono la rifondazione del partito, che ha finora incarnato solo in parte la sua idea costitutiva e il suo patrimonio valoriale. Sono venuti al pettine insomma i nodi mai sciolti del partito, visione, insediamento sociale, organizzazione, che a lungo e di proposito non sono stati affrontati, neanche alla prova di altre sconfitte. Il tempo delle furbizie e irresolutezze è però finito.
In questi anni tanti hanno votato PD turandosi il naso, lo hanno considerato una opzione di ripiego, utile a fermare le destre, insomma il meno peggio e ciò ha illuso cacicchi, signori delle tessere e capicorrente che avrebbero potuto continuare a spadroneggiare in eterno. Alla fine stanchezza, disincanto e rabbia hanno spinto tanti elettori democratici e progressisti a voltare le spalle al partito o ad astenersi. In democrazia gli eletti devono rappresentare i cittadini, i loro bisogni, le loro speranze, la loro visione del mondo, non coltivare soltanto la propria aspirazione a conservare spicchi di potere.
Una classe politica, miope e ripiegata su se stessa, ha rinunciato a fare politica, a conquistare nuovi elettori ed elettrici, si è illusa di poter contare su uno zoccolo duro, su un voto identitario che non c’è più, ha perso il contatto con la base e non è stata più capace di dare rappresentanza ai ceti popolari e meno abbienti, alla classe media e al mondo produttivo, ai lavoratori dipendenti, la classe operaia che ancora esiste e chiamarla così non è affatto una parolaccia. Un paradosso per un partito di sinistra!
I partiti nascono e hanno senso se elaborano un’idea di Paese, di sviluppo e di futuro, se ricercano e conquistano i consensi per imprimere un cambiamento nella società. Il PD, dal livello locale a quello nazionale, ha pensato solo a come stringere accordi ed accordicchi tra capibastone, è diventato il partito della responsabilità, del governo, dello status quo anziché del cambiamento. Iscritti e militanti, ridotti al lumicino, sono stati usati per la conta interna e la spartizione a tavolino di incarichi e prebende.
Enrico Letta si è presentato dimissionario e ha espresso la volontà di non ricandidarsi, aprendo la fase congressuale. È troppo facile e comodo dargli tutte le colpe, fargli pagare errori che sono dell’intera classe dirigente ed è ridicolo pensare che basta sostituire il segretario, facendo finta di non vedere che il PD ha da tempo perso il suo popolo e non incarna più le tante solitudini che attraversano il nostro Paese.
Un congresso che dia una rimescolata alle carte delle correnti interne, un’operazione di maquillage, un colpo di belletto per cercare di coprire le magagne oltre che inutile sarebbe ulteriormente deleterio. Serve un cambiamento profondo, radicale. È l’intero modello su cui si fonda il partito che va smantellato e il PD va ricostruito su basi diverse. Basta con i personalismi, con gli arrivisti, con quanti pensano al potere per il potere, a conservare solo le proprie posizioni di comando. Occorre azzerare questi meccanismi perversi, aprire porte e finestre, ascoltare chi ha idee diverse, chi ha studiato le trasformazioni sociali di questi anni, prestare attenzione alla rabbia e alla delusione di chi non ha votato il PD o ha fatto fatica a farlo, senza paura di riconoscere gli errori e senza recriminazioni. L’alternativa è andare avanti di sconfitta in sconfitta, assumendosi la responsabilità storica di far sparire dal panorama politico italiano la sinistra democratica e progressista.
Se le destre hanno vinto le elezioni è perché gli elettori hanno giudicato le loro proposte più convincenti e non hanno creduto all’idea di politica e di Paese proposta dal PD e dalla parvenza di coalizione che guidava, ritenendola inadeguata nei contenuti, non rispondente alle proprie esigenze, incarnata da personalità a cui non hanno ritenuto di poter accordare fiducia.
La vittoria della destra sovranista e dei suoi alleati satellite chiude definitivamente la lunghissima stagione degli aggiustamenti istituzionali, dei governi tecnici, delle abili manovre di vertice, delle alchimie di palazzo, della sostanziale non attenzione alle sensibilità e alle domande dei cittadini. Il PD deve dimenticare la fase governativa, la logica del “ma anche”, decidere da che parte stare, chi rappresentare e quali interessi difendere, insomma lavorare ventre a terra per ricostruire la propria identità e smetterla con la spocchia di considerarsi superiore, di avere le soluzioni giuste a tutti i problemi e di esprimere una classe dirigente migliore di quella degli altri partiti. Solo così tanti cittadini torneranno ad appassionarsi alla politica e a votare.
La sfida che il PD deve raccogliere è di dare voce all’interno delle istituzioni a quella parte di Paese che sta pagando il prezzo pesantissimo di una crisi drammatica che si trascina da anni e non vede davanti a sé una prospettiva di futuro. Serve una sinistra democratica e progressista che punti sulla giustizia sociale, sulla sicurezza sul lavoro, proponga strumenti efficaci per contrastare l’evasione fiscale, riduca le tasse sul lavoro, si occupi della sanità pubblica che vede scappare medici e infermieri malpagati e costretti a turni infami e non garantisce una appropriata assistenza ai cittadini, affronti la tragedia dei salari tra i più bassi d’Europa, proponga di investire nella ricerca, nella formazione dei giovani costretti a scappare dall’Italia per trovare un lavoro adeguato alle proprie qualità senza essere stritolati da clientelismo e nepotismo feudale, ascolti la voce di tutti i cittadini, non solo di quelli che vivono nelle Ztl, ma anche di quanti abitano nelle periferie e nelle campagne.
Ripartire dai territori, tornare a fare politica casa per casa, strada per strada, quartiere per quartiere è la strada indispensabile.
Serve olio di gomito e suola delle scarpe.
Serve un partito che torni a mettersi in ascolto, che abbia la forza delle idee e l’umiltà di confrontarsi con quanti vivono la fatica del quotidiano.