"Voce dal sen sfuggita poi richiamar non vale: non si trattiene lo strale, quando dall'arco uscì”. Pietro Metastasio
Abbiamo ingoiato con rassegnata accettazione la nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito, come un inevitabile tributo alla nuova maggioranza, e non considerando adeguatamente che la questione non è nominalistica ma sostanziale. In discussione non è il merito. A scuola un certo grado di competizione è normale, ma adottare la logica del più forte, lasciando ai margini o escludendo i più deboli è sbagliato e pericoloso socialmente. La scuola non deve far emergere qualcuno, ma far crescere tutti in un contesto di reciproco scambio e collaborazione. Insomma il problema è ritenere il merito un assoluto, svincolato dalle condizioni di partenza che rendono possibile l’apprendimento e ignorare la necessità che lo Stato promuova politiche finalizzate a colmare le disparità iniziali fra gli studenti.
Giuseppe Valditara, ordinario di Diritto Romano e neo ministro dell’Istruzione e del Merito, in queste prime settimane di esercizio della sua funzione è venuto tracciando il sentiero preciso che intende percorrere, nel quale ordine, disciplina e strumenti educativi sembrano i soli attrezzi di cui intende avvalersi e ha delineato il profilo di una scuola che sembra quasi il surrogato di un carcere minorile. Dalle sue parole è emersa un’idea di scuola antiquata, risalente almeno ad un cinquantennio fa, la riproposizione di talune esperienze del dopoguerra, dove maestri solerti erano armati di bacchetta, dispensavano castighi, punivano duramente gli alunni esuberanti o ritenuti poco dotati e si confondeva l’autorevolezza con l’autoritarismo.
Umiliare aiuta a crescere. È la tesi propugnata dal Ministro, per il quale l’umiliazione sarebbe un valido e risolutivo strumento per combattere il bullismo. Ospite a Milano dell’associazione Amici delle Stelline, Giuseppe Valditara ha raccontato un episodio accaduto in una scuola (vero o falso non importa) e, sostenendo la necessità di punire esemplarmente il responsabile, ha affermato testualmente: “Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche. Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione”.
Gli studi sulla formazione della personalità sono tanti, ricchi di proposte, intuizioni, analisi empiriche, ma in nessuno si afferma che l’umiliazione è uno strumento educativo, al contrario è ritenuta terribilmente pericolosa, in grado di causare esclusione ed isolamento sociale. Peraltro uno dei cardini della strutturazione e del consolidamento della personalità è l’autostima che il soggetto deve produrre per vivere, la quale si alimenta dalla stima degli altri, da come è percepita proveniente dal gruppo dei pari o nei detentori di autorità e ruoli diversi.
Il pensiero dei pedagogisti che si sono occupati della scuola e delle dinamiche docente-discente si muove in direzione opposta a quella prospettata dal Ministro. J. Jacques Rousseau ha teorizzato e applicato metodi innovativi nell’educazione dei ragazzi a partire dalla seconda metà del ‘700, nel presupposto che compito dell’educatore è formare la persona e non proponeva certo il ricorso all’umiliazione. L’insegnante deve leggere il vissuto del ragazzo con le sue contraddizioni e aiutarlo a sviluppare una relazione ricca fra lui, le cose e il mondo attraverso un incessante impegno educativo immerso nel sociale. John Dewey, pedagogista e filosofo statunitense del 1800 proponeva un’idea rivoluzionaria del sistema dell’istruzione, convinto dello stretto legame fra persona e ambiente e quindi della necessità che la scuola partisse dalle condizioni di vita quotidiane degli studenti per assolvere al suo compito. Maria Montessori, laureata in Medicina e in Filosofia, neuropsichiatra e pedagogista, ha dedicato tutta la sua attività alla decifrazione del mondo e dei bisogni infantili ed ha applicato i suoi metodi rivoluzionari nelle scuole da lei dirette all’inizio del ‘900, partendo dal presupposto che la scuola deve essere a misura di bambino, esplorarne la personalità per sé e nel rapporto con gli altri. Secondo Alberto Manzi, Mario Lodi e Don Milani il riscatto e la redenzione dei più fragili non si ottengono con la mortificazione e il ripristino dell’autorevolezza degli educatori non passa dal potere delle istituzioni educative di punire e umiliare chi ha commesso un danno alla collettività mediante comportamenti definiti devianti. L’impostazione punitiva e vendicativa non giova a nessuno, non c’è nulla di educativo nel mortificare chi sbaglia ed è imperdonabile se un docente non dà la possibilità di recupero all’allievo. Le urla di rimprovero, magari le orecchie d’asino, il ricorso alla paura sono strumenti tossici, che non aiutano la crescita. Occorre formare al rispetto dell’altro, al rifiuto di ogni forma di violenza mediante l’educazione civica, la promozione del dialogo che parta dall’ascolto, rafforzare l’investimento culturale interrogandosi sulle cause dei comportamenti violenti, costruendo le condizioni per la crescita dei ragazzi e ricordando che umiliare qualcuno significa lasciarlo solo, abbandonarlo a sé stesso.
L’impressione è che il riferimento culturale del Ministro sia il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket, per il quale ordine e disciplina si ottengono mediante il sistematico ricorso all’offesa, alla vessazione e all’umiliazione, come quelle riservate all’insultatissimo soldato Palla di Lardo. Per Kubrick si trattava di un personaggio tragicomico, mentre per il ministro evidentemente di un modello serissimo e funzionante. Forse la scuola ideale per Valditara è quella ridotta ad una sorta di campo di addestramento con torrette guardate a vista da reclute armate e un generale che passa le giornate a urlare ordini ai coscritti, i quali devono tacere e obbedire, sperando che prima o poi diventeranno loro quelli che urlano.
Chissà il prossimo passo sarà sostenere che due schiaffi non hanno mai fatto male a nessuno e che le bacchettate sulle dita aiutano a imparare le tabelline.
PS: Il ministro ha corretto il tiro, sostenendo di aver usato un termine sbagliato. Voleva dire umiltà e non umiliazione. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito sbaglia le parole. Buffo, se non fossero questioni serie.