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La Consulta, i referendum e il ruolo della politica

Feb 20, 2022 Scritto da 

 

 

Ricorrendo ad una metafora calcistica, è come se al termine di una partita decisiva e piuttosto combattuta per le sorti del campionato l’arbitro fosse sceso in sala stampa a spiegare le decisioni prese, i falli fischiati, i rigori dati e negati, le ammonizioni e le espulsioni inflitte ai giocatori e i gol annullati e convalidati. Abituati agli stringati comunicati di un tempo, la vivace conferenza stampa del Presidente della Corte Costituzionale, Giuliano amato, segna un cambio di passo per quanto riguarda la comunicazione di un organo fondamentale di garanzia nell’assetto democratico del nostro Paese. A ben vedere però non c’è da meravigliarsi. Giuliano Amato, professore, giurista e politico di lungo corso, due volte Primo Ministro, non può che interpretare il proprio ruolo di Presidente della Consulta al modo di chi da oltre cinquant’anni è un protagonista della scena pubblica del nostro Paese. Il suo presentarsi per spiegare ai giornalisti, e per il loro tramite ai cittadini, le ragioni delle decisioni assunte sui quesiti referendari si inserisce in una recente tradizione, un’innovazione positiva, quantomeno in termini di trasparenza e conoscenza dell’attività svolta dai giudici costituzionali, di attenzione a relazionarsi con l’opinione pubblica, di tentativo di colmare il fossato purtroppo assai profondo esistente tra cittadini e istituzioni. Il rischio tuttavia è quello di alimentare un’immagine pubblica fin troppo semplificata della Consulta e soprattutto di esondare dai confini istituzionali, andando oltre con le spiegazioni, sconfinando in valutazioni ultronee e inopportune per la funzione di garanzia svolta e venendo meno alla necessità che i pronunciamenti siano contenuti esclusivamente nelle sentenze. Tanto è vero che il tweet, nel quale venivano riportate le dichiarazioni del Presidente Amato circa la necessità che nel giudizio sui quesiti referendari non ci si fossilizzasse troppo, non si andasse a cercare il pelo nell’uovo, è stato considerato da più parti se non altro inopportuno perché ha ingenerato false aspettative, l’idea che potesse esserci una valutazione dei quesiti proposti non strettamente legata ai limiti rigorosi delle attribuzioni costituzionali della Consulta. È vero che si è trattato di una dichiarazione generica, priva di significato giuridico e sicuramente non anticipatoria del giudizio finale, tanto più che in concreto non ha impedito ai giudici costituzionali di dichiarare inammissibili proprio i referendum più sentiti a livello d’opinione pubblica. Tuttavia ha ingenerato aspettative infondate, ha lasciato sperare in un esito diverso e di conseguenza la delusione degli esponenti dei comitati promotori e dei sostenitori dei referendum è stata forte e per certi versi comprensibile. Il dato fondamentale è che in un sistema democratico quanti ricoprono incarichi istituzionali devono accompagnare al rispetto delle regole formali uno spiccato senso delle istituzioni e non sono pensabili scorciatoie, anche se investono semplicemente il piano della mera opportunità. Questo ovviamente non significa mettere la mordacchia o sacrificare le legittime opinioni, ma far prevalere gli interessi generali e il rispetto delle istituzioni democratiche sulle aspirazioni personali.
 
La Costituzione della Repubblica affida alla Corte Costituzionale il giudizio di legittimità, fissando chiaramente ambiti e limiti nell’esercizio di questo potere e non ci si può spellare le mani quando produce sentenze gradite, rivoluzionarie, come quella sulla depenalizzazione del suicidio assistito e poi tacciare i medesimi giudici di conservatorismo miope, finalizzato al mantenimento dello status quo quando le decisioni hanno carattere e contenuti non graditi.  
 
Al di là delle valutazioni tecnico-giuridiche che hanno portato alla dichiarazione di inammissibilità di tre quesiti referendari, riguardanti materie peraltro assai sentite dall’opinione pubblica come il fine vita e la depenalizzazione delle droghe leggere, il dato che emerge è che siamo passati dai grandi referendum, relativi alle scelte di civiltà, come aborto, divorzio, nucleare, acqua bene comune, a quesiti caratterizzati da un tecnicismo esasperato, poco comprensibili ai cittadini e comunque a questioni come il funzionamento del Csm, la separazione delle carriere, la valutazione dei magistrati, che fanno parte della proposta di riforma della ministra della Giustizia Cartabi presentata in Parlamento. Ad ogni buon conto essendo stata chiusa la possibilità di far esprimere i cittadini su questioni di grande rilevanza, il rischio è che finisca per esasperarsi la distanza tra il palazzo e l’opinione pubblica e soprattutto che resti irrisolto l’annoso problema della collocazione degli istituti di democrazia partecipativa all’interno di una democrazia parlamentare.
 
Sebbene il Parlamento non sia tecnicamente obbligato a rispondere alle domande poste dai cittadini attraverso l’iniziativa referendaria con un intervento normativo adeguato e rispettoso della volontà popolare, a prescindere se i quesiti abbiano o meno superato il vaglio della Consulta, sarebbe terribile non farlo, anzi costituirebbe l’ennesima dimostrazione dell’inadeguatezza e della delegittimazione dell’intera classe politica. Certamente se guardiamo al passato, anche quello relativamente recente, non solo il Parlamento non ha dato prova di raccogliere i segnali profondi provenienti dal Paese, ma addirittura in alcune occasioni ha di fatto depotenziato e inibito gli esiti delle scelte referendarie. Un esempio eclatante è la stagione referendaria del 2011 che portò una straordinaria vittoria sul tema dell’acqua bene comune e sul nucleare che però non ha avuto decisive conseguenze. Infatti il no al nucleare è stato rimesso in discussione proprio in questi giorni da esponenti politici di alcune forze politiche e da autorevoli ministri, mentre la vittoria sull’acqua bene comune è stata contrastata appena un mese dopo con un decreto che si proponeva di far venire meno gli effetti del referendum stesso e dando origine ad una vicenda assai controversa e non ancora conclusa.
 
La decisione della Corte Costituzionale accresce in misura esponenziale la responsabilità del Parlamento, essendo rimasto l’unico luogo di rappresentanza politica del popolo e sarebbe necessario che le Camere dimostrassero di saper dare risposta alle esigenze sociali che si sono manifestate con chiarezza nel corpo vivo della nostra società. Se al contrario continuerà a restare inerte e insensibile o addirittura proseguirà sulla strada della non considerazione della volontà espressa dai cittadini, alla crisi della democrazia diretta si sommerà quella della democrazia rappresentativa, con il rischio che ad entrare in crisi nel nostro Paese sarà la democrazia tout court.
Pubblicato in Riflessioni
Ultima modifica il Domenica, 20 Febbraio 2022 08:04 Letto 565 volte

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